giovedì 22 novembre 2012

Vi presento la crisi

Se ne parla tanto, ognuno di noi ci ha avuto a che fare e ne patisce le conseguenze, quasi tutte le decisioni che vengono prese in questo momento nel nostro Paese sono dettate dall'esigenza di uscirne: vista con gli occhi di un profano dei mercati finanziari, la crisi sembra una malattia molto pericolosa e infettiva, una calamità impossibile da prevedere e di fronte alla quale reagire è difficile.
Sono in pochi a sapere da cosa è partito tutto questo: l'atteggiamento tipico di chi ci governa è di scaricare la colpa sul governo precedente, mentre i politici si sbracciano nei salotti televisivi per attestare la propria innocenza e puntare il ditino contro chiunque capiti loro a tiro, cameraman compresi.
Smettiamola una buona volta di credere che trovare un capro espiatorio possa aiutarci ad affrontare meglio i nostri problemi e mettiamoci in testa una cosa: la politica c'entra ben poco, o almeno non quanto crediamo noi. 
Esiste un complesso sistema finanziario dei cui meccanismi la gran parte di noi è all'oscuro, ma sul quale dobbiamo interrogarci se vogliamo cercare di cambiare le cose.
Vi avverto: non è semplice. La distanza che intercorre tra questo e il mio post precedente è significativa: capirci qualcosa per una che non si è mai preoccupata di economia non è stata esattamente una passeggiata, ma ci sono poche cose nella mia vita che considero più interessanti del mio piccolo excursus nel mondo della finanza.
Lo dovevo a me stessa e al futuro che temo di non avere più.

Dopo la Grande Depressione, al divampare della quale contribuirono diversi abusi finanziari, in America vennero varate nuove leggi che posero dei limiti ai rischi che una banca poteva correre e che assicurarono la trasparenza delle informazioni finanziarie.
Un esempio è il Glass-Steagall Act del 1932, che prevedeva la separazione tra banche commerciali e banche di investimento: le prime operavano con i risparmi della clientela senza poter effettuare investimenti spericolati sui mercati finanziari, mentre le seconde potevano correre dei rischi, ma autofinanziandosi attraverso l'emissione di obbligazioni. In questo modo, quando banchieri e trader facevano un investimento sui mercati stavano bene attenti ad utilizzare i soldi in modo oculato, visto che le conseguenze sarebbero ricadute direttamente su di loro.
Gli operatori finanziari, di conseguenza, non avevano gli stipendi da sogno di cui godono ora: c'erano trader che facevano anche due lavori contemporaneamente per riuscire a mantenere tutta la famiglia e arrivare a fine mese.

Poiché in questo modo nessuno si divertiva, con Reagan (siamo negli anni '80) si affermò la dottrina economica del Neoliberismo, già promossa nei Paesi anglosassoni grazie a Margaret Thatcher e diffusasi ben presto in gran parte del mondo occidentale.
Secondo i neoliberisti, il libero mercato è capace di autoregolarsi grazie alla legge della domanda e dell'offerta: se c'è molta domanda di un bene specifico il prezzo di quest'ultimo aumenterà, ma quando il bene sarà troppo presente sul mercato il suo prezzo diminuirà e si passerà al bene successivo. 
Dunque, sostanzialmente, il mercato non ha bisogno né dello Stato né tantomeno delle sue regole. Reagan, ad esempio, appena eletto dichiarò che l'unico problema del mercato era lo Stato.
Le falle di questa teoria sono sotto gli occhi di tutti: essa si basa sul presupposto che tutti gli operatori finanziari, gli investitori, i piccoli risparmiatori e in generale tutti quelli che prendono parte ad operazioni finanziarie dispongano delle stesse informazioni ed abbiano un comportamento sempre razionale. 
Nessuna delle due affermazioni è vera, ma ci arriviamo.
Inoltre il Neoliberismo considera merci anche la sanità e l'istruzione, che fino a prova contraria sono diritti; non producendo un profitto immediato, però, esse sono per loro natura penalizzate rispetto ad altri beni, per cui non possono essere garantite.

Ad ogni modo, il Neoliberismo negli anni '80 portò all'avvio della deregolamentazione dei mercati finanziari, cioè alla riduzione o semplificazione delle leggi in base alle quali si fanno affari e vengono controllati i titoli. 
Ciò non avvenne tutto in una volta, ma attraverso delle tappe.
Tanto per cominciare, il Garn-St. Germain Act sancì la deregolamentazione delle casse di risparmio, istituti generalmente senza scopo di lucro che nascevano con l'obiettivo di raccogliere piccoli risparmi remunerandoli attraverso investimenti poco rischiosi come l'acquisto di titoli di Stato, con facoltà di erogare prestazioni di previdenza. 
Da quel momento, casse importanti come le americane Savings and Loan furono di fatto equiparate alle banche e cominciarono ad investire i soldi dei piccoli risparmiatori senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Quando fallirono, lo Stato dovette intervenire con 124 miliardi di dollari gentilmente concessi dai contribuenti americani.
Non fu l'unica brutta storia che coinvolse le S&L e caddero un pò di teste a Wall Street, volarono accuse di truffa e non fu piacevole. Ma capirono l'antifona? No.

Nel 1999 il Gramm-Leach-Bliley Act ("Atto di modernizzazione dei sistemi finanziari") promosse la fusione tra banche commerciali, banche d'investimento e compagnie di assicurazione abrogando di fatto il Glass-Steagall Act e portando alla creazione delle banche universali: il vantaggio era che i nuovi organismi erano too big to fail, troppo grandi per fallire. Un loro fallimento, infatti, avrebbe decretato la discesa nel baratro di tutta l'economia mondiale e lo Stato sarebbe stato obbligato ad intervenire attraverso i soldi dei contribuenti. 
Insomma, attraverso la fusione tra loro le banche e le compagnie assicurative si sono conquistate la libertà di correre rischi molto grossi con la sicurezza che lo Stato sarebbe corso in loro aiuto in caso di fallimento.
Già un anno prima che Clinton caldeggiasse l'Atto di modernizzazione, la Citicorp, seconda banca americana in ordine di importanza, si era fusa con la compagnia assicurativa Travelers Group per dare vita a Citigroup, la prima azienda statunitense a combinare servizi bancari e assicurativi dopo la Grande Depressione.


Un anno dopo, nel 2000, Clinton si inventò un nuovo modo per rendersi utile appoggiando il Commodity Futures Modernization Act, che bandiva qualsiasi tentativo di regolamentazione dei derivati esentandoli dalle leggi anti-scommesse.
I derivati sono contratti che permettono di comprare, vendere o scambiare qualcosa in una data futura, ma al prezzo attuale. La controparte che vende il contratto, di solito una banca, si assume il rischio che il bene in questione sia più costoso al momento dell'acquisto, ma in cambio prende una commissione.
Esempio: Ciccio compra un derivato per un litro di petrolio, che ora costa 1000 euro, che gli permette di comprare effettivamente il litro tra sei mesi. Se, trascorso questo periodo, al momento dell'acquisto il prezzo del litro di petrolio sarà di 1050 euro, il profitto di Ciccio ammonterà a 50 euro, da cui la banca potrà sottrarre la sua commissione. Comprando il derivato, quindi, Ciccio ha scommesso che il prezzo del petrolio salisse.
Ciccio è uno speculatore.
Esistono derivati anche su calamità naturali (scommetto che ci sarà una siccità in Burundi e che il prezzo del grano salirà, poi se ciò accade ci guadagno) e su altri derivati (in pratica si scommette che una scommessa futura possa aumentare di valore); se ciò su cui si scommette è presente nei paradisi fiscali, si può eludere facilmente il fisco; alcuni usano i derivati come fossero denaro vero e proprio, aumentando l'instabilità dei mercati.

Tra i derivati più famosi ci sono i Credit Default Swap, che permettono di scommettere sul fallimento di qualcun altro.
Se per esempio acquisto delle obbligazioni di un'impresa ma temo che essa possa fallire, chiedo ad un terzo di assumersene il rischio dietro compenso: se l'impresa fallisce, sarà lui a risarcirmi.
La speculazione con i CDS è facile: se scommetto che la Grecia possa fallire e la situazione peggiora, il mio CDS aumenterà di valore e potrò rivenderlo realizzando un profitto. Se però le compagnie di assicurazione che stipulano i CDS falliscono, si innescano enormi crisi finanziarie: non a caso nel 2008 è fallita la AIG, una delle più grandi compagnie assicurative del mondo.
I derivati, dunque, non sono sottoposti ad alcun controllo ma hanno un enorme potere sull'andamento dei mercati, al punto da contribuire all'esistenza di un mercato finanziario parallelo al quale accedono gli speculatori più importanti e che influenza l'intero Pianeta: il sistema bancario ombra, o shadow banking system, i cui organismi sono legati alle banche ma operano senza essere sottoposti al sistema bancario internazionale, essendo per di più registrati in noti paradisi fiscali.

Del sistema bancario ombra fanno parte anche le società veicolo, che hanno avuto una parte importantissima nella crisi del 2008. 
Nel 2000, infatti, oltre ai CDS si sono affermati i CDO e la cartolarizzazione dei mutui. Facciamo prima con un esempio.
Sono un'americana disoccupata, ma Bush mi ha convinta, grazie ad uno dei suoi famosi discorsi, ad acquistare una casa chiedendo aiuto ad una banca. Ne scelgo una dall'elenco telefonico, mi presento davanti ad uno dei suoi impiegati e chiedo di stipulare un mutuo. Il tizio non mi guarda nemmeno in faccia, non mi chiede garanzie che io possa restituire i soldi né tantomeno vuole sapere che lavoro faccio: mi presta tutta la somma senza fiatare ed io corro a comprarmi la villetta con giardino che ho sempre sognato.
Il mio è un mutuo subprime. I soldi che l'impiegato mi ha concesso, però, non provengono dalle casse della sua banca: il mio mutuo è stato affidato ad una società veicolo che l'ha diviso in pezzi chiamati obbligazioni, provvedendo poi a piazzarli sul mercato ben nascosti tra titoli affidabili.
Il giorno dopo mia madre va nella stessa banca a fare un versamento. Mentre l'impiegato compie l'operazione, comincia a parlarle in toni entusiastici di certi titoli molto ben valutati dalle agenzie di rating e dell'opportunità di fare un pò di soldi con un investimento minimo grazie ai tassi d'interesse. Mia madre ci crede e acquista un paniere di titoli affidabili tra cui si nascondono alcuni pezzi del mio mutuo.
Il paniere si chiama CDO e la pratica di spezzettare un credito per trasformarlo in obbligazioni che poi saranno rivendute sul mercato si chiama cartolarizzazione.
Diciamo che un parente danaroso mi lascia una bella eredità: sarò in grado di pagare le rate del mutuo, mia madre riavrà i suoi soldi e percepirà un interesse molto piccolo rispetto a quello che invece andrà alla banca.
E se rimango come sono, cioè disoccupata, e non riesco a pagare le rate?
Mia madre non riavrà mai i suoi soldi, e con lei tutti gli investitori ai quali sono stati rivenduti i CDO in cui si nascondevano pezzi del mio mutuo.
La banca, però, non perde nulla: quando ha affidato il mutuo alla società veicolo, quest'ultima le ha reso tutta la somma che ho chiesto per la casa, prima di trasformarla in obbligazioni. Dunque, fin dall'inizio alla banca non risultava nessun credito e ora che ho smesso di pagare non le risulta alcuna perdita. Intanto, però, ha potuto investire la somma sul mercato acquistando titoli per i quali altrimenti non avrebbe avuto i soldi necessari e si appresta a ricavarne interessi enormi.
Signore e signori, ecco a voi la crisi.

Tra il 2005 e il 2008 le stesse banche che avevano rivenduto CDO ai propri clienti cominciarono a scommettere attraverso i Credit Default Swap contro gli stessi titoli che stavano vendendo come estremamente sicuri. 
I CDS sui CDO funzionano in questo modo: l'investitore che ha acquistato un CDO paga una somma ad una compagnia assicurativa, in modo da avere indietro i soldi nel caso in cui la persona che ha stipulato il mutuo non riesca a ripagarlo. Purtroppo, però, anche le persone che non possiedono il CDO possono assicurarsi contro l'insolvenza attraverso il pagamento di una somma: le agenzie assicurative come l'AIG hanno adottato questo procedimento per fare cassa nell'immediato, ma quando i mutui non sono stati ripagati non sono riuscite a pagare nessuno di quelli che si erano assicurati. Lo hanno fatto perché sapevano che lo Stato sarebbe intervenuto per salvarle e scongiurare una crisi mondiale di proporzioni epiche.
Nel giro di pochi anni, infatti, mentre milioni di persone hanno perso tutti i loro risparmi, le banche hanno offerto enormi bonus ai propri operatori, forti degli enormi profitti derivanti dal fallimento altrui.
I prezzi delle case sono saliti vertiginosamente perché tutti volevano la villetta, tutti chiedevano prestiti (legge della domanda e dell'offerta, ricordate?). Si chiama bolla immobiliare e le bolle, si sa, prima o poi scoppiano: nel 2007 non c'era più nessuno che fosse disposto a chiedere prestiti e a comprare case, mentre c'era parecchia gente che aspettava di riavere i propri soldi.
Ciò che è successo dopo è storia: i prezzi delle case sono crollati del 32% in tre anni, milioni di persone si sono viste pignorare la casa appena acquistata e si sono ritrovate sotto la soglia di povertà, la disoccupazione è raddoppiata, miliardi di dollari dei contribuenti sono stati usati per salvare le banche dal fallimento.

Avete visioni di banchieri appesi agli alberi a maturare? Toglietevelo dalla testa: molti di quelli che hanno causato la crisi e si sono arricchiti grazie ad essa sono stati addirittura promossi e potete vederli accanto ad Obama alla presidenza degli Stati Uniti. I mercati funzionano proprio come prima della bolla e non ci rimane che aspettare la prossima.
Intanto, a quelli di voi che vogliono conoscere nomi e cognomi di questi signori e sentono l'esigenza di approfondire, consiglio un film molto bello: Inside Job, diretto da Charles Ferguson e incentrato proprio sui meccanismi che hanno portato alla crisi del 2008, con interviste molto significative alle persone che contano, molte delle quali finite male tra silenzi imbarazzati degli intervistati e minacce all'intervistatore.

Per quanto mi riguarda, continuerò a scrivere a proposito dei mercati finanziari e del loro funzionamento: non sono affatto un'esperta, ma proprio per questo sono convinta del valore dell'informazione e del dialogo.
A breve ho intenzione di pubblicare un piccolo vocabolario economico con i termini della finanza di base: lo scopo è poter spiegare in parole semplici concetti che sentiamo tutti i giorni e sui quali si basa la nostra serenità, ma che in questo momento ci sembrano privi di senso.
Spero nella collaborazione e nei consigli dei lettori più esperti.
Stay connected.

Ascolto consigliato:



martedì 6 novembre 2012

Sistemi elettorali e altre porcate


Negli ultimi mesi c'è un tema che, pur essendo di importanza capitale per gli italiani, è passato un pò sotto silenzio: se ne parla, ma mai con la chiarezza dovuta, quasi en passant
Sto parlando della nuova legge elettorale, o meglio del tentativo di modificare il Porcellum.

Andiamo per ordine: cos'è il Porcellum?
Nel 2005 Roberto Calderoli (Lega Nord) firmò una legge alla quale lui stesso affibbiò l'appellativo di porcata (da cui il soprannome latineggiante) e che nonostante tutto fu votata da Forza Italia, Alleanza Nazionale, Udc e Lega Nord, mentre fu osteggiata da Idv, Ds, Margherita e Rifondazione Comunista.
La legge introdusse un sistema proporzionale corretto con premio di maggioranza ed elezione di più parlamentari contemporaneamente in collegi estesi senza la possibilità di indicare preferenze.

Calma.

Tanto per cominciare, il territorio italiano in occasione delle elezioni viene diviso in collegi, detti anche circoscrizioni: per quelle del Senato c'è un collegio per ogni Regione, infatti secondo la nostra Costituzione esso è eletto a base regionale; per la Camera dei deputati, invece, le Regioni più estese vengono divise in zone più piccole, per cui abbiamo 26 collegi.
Ad ogni collegio viene assegnato un certo numero di seggi, cioè di posti in Parlamento, a seconda del numero degli abitanti presenti in zona: in ogni collegio, dunque, i partiti e/o i movimenti presentano le loro liste, in ognuna delle quali ci saranno i nomi di tanti candidati quanti saranno i seggi disponibili.
Diciamo, per esempio, che alla Puglia sono assegnati 10 seggi: ogni partito presenterà una lista di 10 candidati.

La lista viene detta bloccata quando l'elettore non decide direttamente i candidati che andranno in Parlamento; se invece si ammette il voto di preferenza, accanto al simbolo della lista prescelta l'elettore potrà apporre il nome del candidato che più lo convince.
Per riprendere l'esempio di prima, diciamo che in Puglia si sono presentati tre partiti con tre liste diverse, la A, la B e la C. Se la A prende 40 voti su 100, avrà diritto a 4 seggi. Mettiamo invece che la B e la C prendano 30 voti ognuna: otterranno 3+3 seggi. Se siamo in presenza di una lista bloccata, ad essere scelti saranno i primi quattro nomi della lista (mi riferisco alla A); se l'elettore, invece, ha espresso un voto di preferenza, vince chi ha conquistato più preferenze.

Abbiamo appena considerato un sistema proporzionale puro, dove ad un certa percentuale di voti corrisponde l'esatta percentuale di seggi.
In questo modo, però, si consente l'accesso in Parlamento anche alle minoranze, che pur rappresentando un numero ridotto di elettori, con questo sistema arrivano ad avere un forte peso decisionale e quindi potrebbero insidiare la maggioranza. 
Per favorire la stabilità, quindi, il sistema viene adottato in una forma corretta,  che prevede sostanzialmente due meccanismi: la soglia di sbarramento, cioè una percentuale al di sotto della quale non si ottiene alcun seggio, e il premio di maggioranza, ovvero un numero di seggi in più concessi al partito, movimento o coalizione che siano riusciti ad ottenere la maggioranza.
Sempre considerando l'esempio di prima, mettiamo che in Puglia si sia presentata anche una quarta lista, che chiameremo D, la quale su 100 voti ne ha presi 3. Poiché solitamente la soglia di sbarramento è il 4 o il 5%, la lista D non avrà diritto a nessun seggio e non sarà rappresentata in Parlamento. Potrebbe però promuovere una coalizione con la lista C, nel qual caso riuscirebbe ad ottenerne qualcuno.

Questo dunque il sistema introdotto dal Porcellum.
I problemi da affrontare sono tanti. Tanto per cominciare, ricordiamo che fine ha fatto il governo del centrosinistra eletto nel 2006 per pochi voti: aveva una maggioranza talmente risicata che dopo appena due anni abbiamo dovuto votare di nuovo.
Quello di maggioranza, infatti, è un concetto insidioso se riferito ad un sistema proporzionale. Se noi adottassimo un sistema maggioritario, per il quale chi ha più voti vince, in Parlamento ci andrebbe solo chi ha preso la maggior parte dei voti. 
Se Pippo prende 51 voti (il famoso 50+1) contro Mauro che ne prende 49, Pippo governa il Paese e Mauro fa opposizione.
Per tutelare le minoranze, invece, il nostro sistema proporzionale prevede che, se Pippo prende 40 voti, Mauro 30 e Mimmo altri 30, governano tutti e tre, solo che su 10 sedie gli amici di Pippo ne occuperanno 4, quelli di Mauro 3 e quelli di Mimmo altre 3. Nel momento in cui bisogna prendere una decisione, se Mauro e Mimmo si alleano contro Pippo, quest'ultimo si troverà in minoranza pur rappresentando la maggioranza degli elettori: i suoi 4 amici avranno voglia di sgolarsi, gli altri 6 vinceranno senza sforzo.
Nel primo caso, dunque, Pippo godrà di una maggioranza assoluta; nel secondo, di una maggioranza relativa.

La sentenza n°4071 della Corte Costituzionale, inoltre, ha stabilito che il concetto di premio di maggioranza è incostituzionale, perché si regalano seggi in più a deputati per i quali non ha votato nessuno. 
Napolitano preme da mesi perché si trovi una soluzione a questo problema e minaccia di intervenire attraverso un decreto se i partiti non riusciranno a trovare un accordo.
Il testo dovrebbe essere pronto entro il 13 novembre e già l'11 ottobre scorso abbiamo assistito ad un grande cambiamento: è stata votata una proposta del senatore Malan che, oltre a reintrodurre il voto di preferenza (prima del Porcellum, infatti, agli italiani era permesso esprimerla), stabilisce un premio di maggioranza del 12,5%
PdL, Lega e Udc sono per il si, mentre Idv e Pd hanno votato contro.

Perché tornare al voto di preferenza?
Secondo i politici favorevoli (anche se all'interno dei partiti la polemica infuria) è per andare incontro ai tanti italiani che vorrebbero poter decidere chi mandare in Parlamento e chi no, in modo che se il candidato non dovesse mantenere le sue promesse, il suo elettorato potrebbe evitare di rieleggerlo e limitare i danni.
Stiamo dimenticando, però, che gli stessi corrotti contro i quali vorremmo avere più potere sono stati eletti proprio col sistema delle preferenze: parliamo di Fiorito, Maruccio e Zambetti
Quest'ultimo, poi, ci porta ad un secondo problema: visto che comprare voti oggi è diventata una pratica usuale, chi ci dice che il politico di turno non abbia comprato le sue preferenze dalla mafia
Ancora: quanti saranno quelli che prometteranno trattamenti di favore e posti di lavoro, magari di rilevanza pubblica, a destra e a manca pur di ottenere una base elettorale ampia?

Il punto principale, però, non è quello delle preferenze: se se ne parla tanto è perché si vuole distogliere l'attenzione dalla fregatura principale, cioè il premio di maggioranza molto, troppo basso.
Le ultime elezioni siciliane, infatti, ci hanno confermato un dato preoccupante: il primo partito è quello dell'astensionismo, che sottrae a chiunque la possibilità di avere una vera maggioranza. Gli avversari di Crocetta non hanno fatto altro che ripetergli di avere una maggioranza finta con la quale non sarebbe andato da nessuna parte ed è questa, con le dovute proporzioni, la situazione alla quale va incontro il Paese, visto che nessuno in questo momento ha una base elettorale del 45%, l'unica che permetterebbe di governare in pace.
Facciamo due conti: secondo gli ultimi sondaggi, Pd, Sel e Idv insieme non arrivano che al 35%. Sommando il premio di maggioranza, arriverebbero al 47,5% e dovrebbero chiedere aiuto all'Udc, che però è sempre più lontana. Anche se si riuscisse ad ottenere una megacoalizione per arrivare alla maggioranza assoluta, il Parlamento sarebbe troppo eterogeneo per assicurare una certa stabilità.

Ora, premesso che addirittura il Porcellum assicurava un minimo di 340 seggi alla Camera dei Deputati e il 55% dei seggi al Senato alla coalizione vincente, il fatto che il premio di maggioranza sia stato fissato ad una percentuale ridicola la dice lunga sull'intenzione dei nostri politici di andare al voto.
Quella del 12,5%, infatti, è una percentuale proposta dai partiti che oggi sono in caduta libera nei sondaggi e che quindi hanno paura, qualora si votasse con l'attuale legge elettorale, di perdere gran parte dei seggi alle Camere. La paura è quella di dover lasciare il posto ai candidati del Movimento 5 Stelle e sappiamo quanta simpatia ci sia tra gli schieramenti.
Non dimentichiamo, inoltre, che molti dei deputati che sarebbero portati a lasciare la sedia sarebbero finalmente costretti ad affrontare i procedimenti legali ai quali si sottraggono regolarmente, anche se in questi giorni si parla tanto di limitare l'ingresso in Parlamento ai non condannati: questa gente sa benissimo che, se non si lasciano procedere le indagini, non si può condannare nessuno. 
Altra storia sarebbe se si impedisse l'ingresso agli indagati: chiunque lo proponga deve subire l'appellativo di giustizialista, ormai molto di moda.

Altro piccolo dettaglio: ci stanno terrorizzando sulla possibilità che, con un governo non stabile e senza una buona base elettorale, il nostro spread potrebbe aumentare smisuratamente, rendendo vani gli sforzi fatti fino ad ora.
Poiché però se la proposta elettorale passa non ci sarà alcun modo di evitare l'instabilità in Parlamento, è molto probabile che la maggioranza finisca per appoggiare un nuovo governo Monti, in modo da rassicurare i mercati e i pochi cittadini che ancora si fidano dei tecnici.
Insomma, stanno firmando le carte per il Monti bis.

Due, le obiezioni obbligatorie: Monti è un tecnico che ci è stato imposto per affrontare una situazione di emergenza che non può che essere transitoria, visto che nessuno lo ha eletto e che il mestiere dei politici dovrebbe essere proprio quello di governarci. 
Riconfermando il governo dei tecnici, questi individui si assicurano uno stipendio e uno dei pochi posti di lavoro fissi e ben retribuiti rimasti in Italia senza nemmeno l'incomodo di dover prendere delle decisioni, visto che ovviamente il potere esecutivo rimarrebbe nelle mani di Monti.
In secondo luogo, visto che il centrosinistra è pieno di europeisti che urlano allo scandalo quando si mettono in discussione i principi politici di una Unione per entrare nella quale nessuno ha votato, è strano che nessuno di loro abbia preso in considerazione le leggi europee per le quali non si può cambiare sistema elettorale nell'anno precedente alla fine della legislatura.

Si capisce, il tempo è poco, bisogna correre.
E qualsiasi cosa facciano, ricordatevi che è per il nostro bene.

Ascolto consigliato:


martedì 30 ottobre 2012

Lucernario - José Saramago

Amanti di Saramago, siete avvisati: di questi tempi entrando in libreria rischiate l'infarto
Cosa succede, infatti, a uno che vede un volume col nome del famosissimo autore portoghese sullo scaffale delle Novità
Per chi non lo sapesse, Saramago è morto nel 2010.
La cosa migliore da fare è rimanere calmi e osservare meglio la copertina, che recita: il romanzo perduto del Premio Nobel per la letteratura.

E' successo questo: nel 1999 una casa editrice ha ritrovato un manoscritto consegnato nel lontano 1953 da un ragazzo di trentun'anni. Il giovane José era un meccanico figlio di analfabeti e privo di studi universitari, ma credeva molto nel suo sogno; aspettò una risposta per molto tempo, poi capì che l'editore non lo avrebbe mai contattato e non la prese molto bene.
Quarantasei anni dopo è arrivata la telefonata tanto attesa, ma ormai era troppo tardi: quello che era diventato un grande scrittore è andato a riprendersi il manoscritto e non ha voluto che lo pubblicassero finché fosse stato in vita.
E poi è morto. Cose che succedono a tutti. E ora eccolo là, ad ammiccare dall'alto di uno scaffale come se fosse ancora tra noi.

In effetti è come riviverlo: la capacità di tratteggiare personaggi anche molto diversi tra loro, di indagarne le intenzioni più nascoste, di dare un senso ad ogni loro gesto o sguardo è già evidente, anche perché al centro del romanzo c'è la famiglia con le sue dinamiche complesse da capire e soprattutto da descrivere. 
Saramago mette in discussione il principio e i valori che ci portano a scegliere di innamorarci, di sposarci e avere dei figli. La giovane età dell'autore, quindi, non si avverte dallo stile, già maturo e riconoscibile, ma dalla convinzione che l'amore, essendo una scelta, come tale possa essere più o meno ponderato o giustificato.

Le realtà che possono nascere dalla scelta di amare qualcuno sono le più varie: nel romanzo sono comprese nell'abbraccio immaginario di un condominio, dove persone completamente diverse tra loro devono convivere e sono costrette, loro malgrado, a dividere un pezzetto della propria esistenza con gli altri.
A volte è l'invadenza di un vicino che ti fa qualche domanda quando esci di casa, a volte è il suono dei passi al piano di sopra a denunciare che la signora è ancora sveglia: non c'è modo di sottrarsi alla curiosità altrui e ognuno interpreta i rumori dell'altro come vuole, attribuendogli significati che spesso esistono solo nella sua testa.
Nel condominio in questione la tensione è palpabile, la curiosità è tanta e tutti parlano di tutti.
Credibile, direi.

La prima famiglia ad essere presentata è anche quella che farà da colonna sonora del racconto e incarna l'amore positivo e duraturo nel tempo: Silvestre è un calzolaio e Miriana è la sua gigantesca moglie. 
Sono loro ad introdurre un altro personaggio chiave: il giovane Abel, vagabondo tuttofare, occuperà una delle loro stanze per contribuire col suo affitto alle spese quotidiane.
Abel cerca continuamente di sottrarsi ai legami perché li trova vuoti e privi di scopo, ma non può evitare di affezionarsi molto a Silvestre e il loro rapporto emula quello tra un padre ed un figlio: sentimentalmente vicini, saranno sempre separati da un modo diverso di intendere la vita, l'uno rassegnato al passato e l'altro in lotta col futuro.
Nella paura di affrontare ciò che verrà e nella polemica nei confronti di chi ha già vissuto, tipica di chi deve vivere ancora, si intravede José ragazzo mentre scrive il suo romanzo.

Il rapporto filiale è stravolto nel caso di Emìlio e di suo figlio Henriquinho: tra loro troneggia Carmen, moglie tutt'altro che devota e madre isterica. 
Il bambino è l'unico punto di contatto tra una spagnola che vorrebbe tornare indietro nel tempo per sposare il cugino ricco e un rappresentante stanco di tutto, consapevole che il suo matrimonio è stato un errore e che per questo non riesce ad avere nemmeno un contatto col frutto del suo amore morto da tempo. 
Henrique è troppo piccolo per capire certe dinamiche, ma ci viene presentato con l'acume e la sensibilità tipici dei bambini, capaci di intuire una situazione complessa e condannati ad esserne influenzati per il resto della vita. 
In lui c'è forse José bambino, gli occhioni spalancati ad osservare gli adulti di cui scriverà nei suoi libri.

Anche Maria Claudia, che vive con i genitori Anselmo e Rosalìa, conserva il diminutivo infantile di Claudinha, ma piccola più non è: i suoi la trattano come una ragazzina da educare, alla quale vietare ciò che è sconveniente e per la quale desiderare un buon lavoro e un marito. 
Ciò però non crea problemi alla ragazza che, anche se giovane, è donna fatta e finita per quanto riguarda consapevolezza e intenzioni. Pur non possedendo ancora il garbo della donna matura, sa perfettamente di essere molto bella e di avere un forte ascendente su chi la circonda: riesce sempre ad ottenere quello che vuole e si fa le unghie sui genitori, ai quali dice ciò che vogliono sentirsi dire mostrandosi come la figlia che loro credono di aver educato.

A volte, invece, sono i genitori a sfruttare i figli per il proprio profitto. 
Nel caso di Lidia, per esempio, femminilità e sensualità sono fondamentali non solo per la sua sopravvivenza, ma anche per quella della madre. Quest'ultima sa che la figlia abita in una casa acquistata e ammobiliata dal suo amante, un ricco imprenditore che la mantiene e le procura ciò di cui ha bisogno, per cui si presenta a casa sua un paio di volte al mese per riscuotere un vero e proprio mensile, interessandosi alle sorti della ragazza solo se l'ipocrisia lo richiede.
Lidia vive molto male la sua condizione, non tollera di dover vendere il proprio corpo per andare avanti ed è additata da tutti i condomini, ma forse proprio per questo non riesce a fare a meno della figura materna, accettandone un surrogato pur di non farne completamente a meno.

Ad unire Justina e Caetano, invece, non c'è più nemmeno un figlio: una malattia ha avuto l'accortezza di portare la loro bimba all'altro mondo, lontano da un padre sessuomane, rozzo e meschino e da una madre che ha l'unica colpa di essere brutta come la fame.
Caetano si butta su qualsiasi donna che non sia la sua ed esplode di frequente in attacchi di rabbia contro la moglie. Justina, dal canto suo, si è rinchiusa nel suo mondo e vive in una sorta di coma indotto, riemergendo solo per elaborare qualcosa da dire all'uomo che si ritrova in casa. 
Pochissimi dialoghi pieni di disprezzo per due personalità che, nonostante le apparenze, sono molto forti e cercano di sopraffarsi a vicenda: lui per maschilismo, lei per sopravvivenza.

La convivenza forzata per convenienza economica giustificata dalle parentele unisce l'ultimo gruppo familiare, quello delle anziane Amélia e Candida e delle figlie di quest'ultima, Isaura e Adriana
Due donne che hanno avuto l'amore e l'hanno perso e due ragazze non più giovanissime che non l'hanno ancora vissuto; le une concentrate sulle poche cose che servono per tirare avanti, le altre non ancora pronte a rassegnarsi e a chiudere i sogni in un cassetto, tra una ciocca di capelli e ciò che resta di una fotografia.
L'insoddisfazione non è evidente come nelle famiglie vicine perché le quattro sono legate da un affetto sincero, ma è lì, strisciante, la speranza di una vita migliore che avvelena i pochi momenti belli di una giornata. 
Non ce n'è abbastanza per dire di aver vissuto e loro lo sanno.

Un lucernario è un'apertura più piccola di una finestra che si apre sul soffitto per far entrare un pò di luce in una stanza. 
Abel è sul tetto del condominio, col naso appiccicato al vetro: se ne stà appollaiato a guardare cosa fanno gli altri per adattarsi al modo strano che ha la vita di metterci davanti ai nostri desideri come se ci guardassimo in uno specchio deforme.
Tutto ciò che credevamo indispensabile per essere felici, l'amore in primis, obbedisce a regole oscure. Il legame tra un padre e un figlio può diventare una catena che ci cade addosso quando tentiamo di rialzarci, un marito e una moglie si scoprono sconosciuti che viaggiano in direzioni opposte, bisogna difendersi da sorelle e madri pericolose.
Stiamo insieme lo stesso, aggrappandoci alle convenzioni, stretti sotto il lucernario per cogliere un raggio di sole. Abel ci guarda dall'alto e sa che prima o poi dovrà scendere a farci compagnia, quando gli ideali cederanno il passo all'istinto. Ci chiede che senso abbia tutto questo e perché dovrebbe scendere dal tetto, ma non abbiamo risposte da dargli.

Lenta, dal lucernario, cade la notte con le sue stelle, a riposarsi su occhi stanchi di vedere e a confermarci l'unica certezza: il buio.

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venerdì 26 ottobre 2012

Surplus: Terrorized Into Being Consumers.


Oggi parliamo di un documentario del 2003, anzi di un art-documentary pluripremiato da leccarsi gli occhi. Argomento: il terrore di obbedire ad un sistema, quello consumistico, che non ci appartiene e che ci rende schiavi.


Erik Gandini ha colto nel segno.
Non stiamo parlando del solito film su quanto è brutto e cattivo il consumismo, su quante cose sprechiamo, sul nostro impatto ambientale devastante, sulla ricchezza di alcuni contrapposta alla povertà di molti: tematiche sicuramente interessanti delle quali non si può e non si deve smettere di parlare. 
Qui c'è qualcosa di più, qualcosa che ci fa rimanere incollati allo schermo per tutto il tempo in contemplazione mentre i nostri neuroni esultano in esplosioni da fuochi artificiali nel nostro piccolo mondo: finalmente cibo vero per il nostro cervello, non la solita sbobba da cinepanettone o gli insulti televisivi del già-visto-già-sentito.

John Zerzan, grande protagonista del film, è l'anarchico ideatore del Primitivismo, teoria che propone il ritorno all'età della pietra come soluzione alla distruzione dell'ambiente a causa della sovrapproduzione di beni che in realtà non servono a nessuno. 
Secondo lui la società mondiale si basa sulla trappola del consumo: non è mai abbastanza, siamo obbligati ad acquistare oggetti solo perché ce lo dice la pubblicità, la cui arma migliore è lo spot di trenta secondi. Affascinati dalla possibilità di sentirci migliori semplicemente spendendo dei soldi, corriamo al supermercato e ci riempiamo i carrelli di stupidaggini, ma il nostro vuoto interiore non accenna a diminuire e ci accorgiamo di essere solo i piccoli ingranaggi di un sistema mastodontico. 

Il documentario si apre con le immagini del G8 di Genova (2001) e della distruzione perpetrata dai Black Block: Zerzan è stato accusato di essere il loro capo ideologico perché sostiene che chi protesta pacificamente non viene ascoltato, mentre chi passa alle vie di fatto viene quantomeno notato. Attenzione: alla base di questa affermazione c'è la convinzione che il danno alla proprietà non è violenza; quella ai danni di persone fisiche viene fortemente deprecata, mentre si sente in sottofondo il coro dei protestanti intonare "polizia assassina" e scorrono le immagini del corpo senza vita di Carlo Giuliani.
A conferma di quanto il sistema sia fallimentare, Svante, un ragazzo diventato milionario grazie ad internet, parla di quanto si senta inutile e di quanto sia difficile spendere i soldi che ha guadagnato: sa di poterci fare molte cose, ma non sente l'esigenza di alcuna di esse.



A scanso di equivoci, il film prende le distanze anche dal comunismo, rappresentato nella realtà vivente di Cuba con il suo Fidel Castro: i suoi discorsi granitici pieni di orgoglio sono contrapposti alle immagini di negozi vuoti. Mirta, mostrando il suo tubetto di dentifricio, dice di sapere esattamente di che marca sia, ma che ormai non serve più specificarlo; spiega che il razionamento è un ottimo metodo per assicurare a tutti i beni di prima necessità. Intanto Tania, una ragazza cubana che è andata a trovare i suoi amici in Inghilterra, parla con adorazione entusiastica della possibilità di mangiare un enorme Big Mac da Mc Donald, dello shock di vedere supermercati zeppi di cose, della meraviglia di poter fare zapping tra un canale e l'altro.

Dunque, da una parte il consumismo con la falsa libertà di scegliere tra una marca e l'altra, dall'altra il comunismo con la falsa dignità di una dittatura basata su uno stile di vita modellato più sui limiti imposti dall'embargo che non su un'ideologia che non può essere imposta ad un intero popolo. 
Volti sorridenti di chi non ha nulla, costretto a spaccarsi la schiena in luoghi fatiscenti e inquinati, occhi delusi di chi ha tutto e non sa che farsene. 
E ancora Zerzan, a dirci che sono in pochi a rendersi conto di tutto questo e che il resto vive da pecora, mangiando cibi spazzatura davanti ad una tv sempre accesa per poi trovarsi un lavoro inutile come la propria vita, sforzandosi di sentirsi felice.

Pesante? No, per due motivi: la fotografia di Carl Nilsson e  Lukas Eisenhauer e la colonna sonora
La prima riesce a proporre immagini mai viste anche se riferite a concetti e situazioni vecchi di almeno cinquant'anni, mixate neanche fossero sequenze musicali. La musica, poi, esprime tutto quello che siamo diventati: frammenti sonori slegati l'uno all'altro, impiantati l'uno sull'altro, dipendenti l'uno dall'altro; ad ogni effetto se ne aggiunge un altro, poi un altro ancora in un crescendo meccanico, senza espressione, quasi fossero i rumori della macchina di cui siamo le rotelle, tutte sostituibili, anonime, uguali, ripetitive fino alla morte. 
Le stesse parole dei personaggi e i loro pensieri sono ripresi più volte, ripetuti ritmicamente e strumentalizzati: da Fidel che mima un "I love this company" con la voce di Steve Ballmer , CEO della Microsoft diventato famoso soprattutto per un comizio penoso in cui saltava e urlava su un palco la sua appartenenza ad una delle società migliori del mondo (ovviamente ripreso nel film), a Bush che si augura il risveglio delle coscienze contro lo sfruttamento. 

In una parola: geniale.

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domenica 21 ottobre 2012

Legalizzare le droghe fa bene all'ambiente


Non ho mai fatto uso di droghe pesanti e non perché non ne avessi avuto la possibilità ma perché ho sempre pensato che se per stare bene avessi avuto bisogno di una sostanza, avrei avuto un problema grave da risolvere: l'incapacità di essere felice giorno per giorno.
Non è che io riesca sempre a sorridere, ma ci sto lavorando.
Ad ogni modo, in questo articolo non prendo le difese della droga in sé, ma espongo una maniera di affrontare il problema che non sia repressivo. I vari tentativi di eliminare le tossicodipendenze rendendo illegali le sostanze, infatti, oltre che improduttivi sono stati molto dannosi. E vado a spiegare il perché.

Per cominciare, affrontiamo la questione da un punto di vista diverso dal solito: l'incidenza della produzione di droga sull'ambiente.
Le sostanze stupefacenti e i loro metaboliti (cioè ciò che viene fuori ogni volta che le molecole delle droghe vengono trasformate dal nostro corpo o dall'uso che ne facciamo, per esempio quando le bruciamo) sono l'ultimo gruppo di inquinanti del nostro Pianeta, ovvero quello più recente. Tanto che le informazioni sulla loro presenza nell'ambiente sono scarse e la gran parte degli studi riguarda il Nord America e l'Europa. 
Peccato che le droghe vengano prodotte in Paesi poverissimi: è lì che vanno ricercate le conseguenze della loro produzione: dallo sversamento di sostanze di scarto nei corsi d'acqua alla deforestazione necessaria per intraprenderne le colture.
Però qualcosa si sa.
L'Università di Lima, per esempio, ha calcolato che in un solo anno i trafficanti della Valle Superiore dell'Hullaga hanno scaricato 100 milioni di litri di rifiuti speciali liquidi impiegati per la produzione di pasta di coca dentro il bacino del fiume omonimo, che confluisce nel Rio delle Amazzoni. A differenza di ciò che si potrebbe pensare i laboratori non sono solo in Sudamerica, ma anche in vaste aree dell'Asia, del Medio Oriente e dell'Europa dell'Est.
Solo nel 2008 sono stati sequestrati quasi 18.500 laboratori illegali di produzione di stupefacenti, che usano sostanze chimiche e le scaricano nei terreni, nei fiumi e nelle reti fognarie.

In termini di spreco di megawatts, il nemico numero uno è la marijuana: nelle coltivazioni clandestine si usano illuminazione artificiale, ventilatori a pale, deumidificatori e molto altro, per un consumo elettrico che negli USA del 2011 equivaleva all'1% di quello nazionale.
Ovviamente se le coltivazioni fossero legali si potrebbero fare all'aperto, senza bisogno di tutto questo.
La marijuana viene coltivata per metà della sua produzione in Messico, dove ha invaso le aree protette delle montagne della Sierra Madre Occidentale; alcuni piantatori californiani sono arrivati a deturpare parte della vegetazione del Sequoia National Park.

Tra le droghe meno ecologiche troviamo l'ecstasy, realizzata con olio di sassofrasso, un albero delle foreste pluviali del Brasile e Sud Est asiatico.

Una delle droghe più diffuse oggi è la cocaina.
Per ogni chilo servono: un chilo di calce, 80 litri di cherosene, 200 grammi di permanganato di potassio e un litro di ammoniaca concentrata.
Riuscite ad immaginare le conseguenze dello sversamento di queste sostanze nell'acqua che la gente della zona usa per mangiare, lavare e irrigare?
Tra Perù, Bolivia e Colombia è stata distrutta un'area più grande del Galles per permettere la coltivazione delle piante di coca, per la quale vengono utilizzati fertilizzanti e antiparassitari. I militari cercano di distruggerle via aerea con tonnellate di erbicidi che ammazzano flora, fauna e colture alimentari. Ah, e anche gli indigeni.
Ma su questo c'è da dire ben altro.

In Bolivia la pianta di coca è coltivata da più di 5000 anni e le foglie vengono masticate dalla popolazione come medicina contro qualsiasi male e per sopportare le altitudini alle quali i cocaleros, come vengono chiamati gli agricoltori che si dedicano a queste colture, devono lavorare.
Siete fuori strada se pensate che questa gente mastichi cocaina: per rendere tale una foglia di pianta di coca occorre un lungo processo durante il quale ad essa vengono aggiunti una serie di additivi chimici. Di sicuro una volta ci si faceva di tutto: saponi, alimenti, pomate e quant'altro: la foglia di coca è una miniera di vitamine, potassio, fosforo, minerali e proteine.

Poi sono arrivati gli americani, che hanno ritenuto loro dovere aiutare i boliviani a disfarsi di questa pericolosissima pianta. In realtà, come spesso accade, gli USA volevano soggiogare il mercato boliviano a quello statunitense in modo da approfittare della grossa quantità di materie prime a basso costo, per non parlare dei contadini disposti a lavorare in qualsiasi condizione pur di non morire di fame.
D'altra parte è la stessa cosa che hanno fatto con noi quando ci hanno impedito di coltivare marijuana come facevamo da sempre per poterci vendere i loro farmaci.
Ma questa è un'altra storia.

Il Plan Dignidad, conosciuto come Coca Zero, è un piano finanziato in gran parte dagli americani che prevede la distruzione delle coltivazioni di coca e la loro sostituzione con colture alternative. 
Era il 1997 e le Nazioni Unite decisero di contribuire con somme minime perché avevano già promosso un altro piano, Agroyungas, per il quale la coca era stata sostituita con il caffè, portando alla bancarotta 1500 agricoltori
Non erano tanto convinti, insomma.
Il Coca Zero coinvolgeva le forze armate, per cui si verificarono molte e gravi violazioni dei diritti umani causate dalla violenza della polizia. 
Più di 36mila famiglie che dipendevano dalla foglia di coca restarono senza fonti di sussistenza e i prodotti sostitutivi come ananas, arance, pepe nero e caffè non trovarono mercato.

Nel 2006, la svolta: al governo, per la prima volta nella storia della Bolivia, va un indigeno. Si chiama Evo Morales e sa perfettamente cosa fare con la coca.
Morales guidò il popolo verso la riappropriazione delle colture, pur condannando con forza la cocaina e soprattutto i narcotrafficanti: la paga per un contadino disoccupato che lavora per loro tutta la notte trasformando la foglia di coca in pasta base per la cocaina è di ben 50 euro, una somma enorme per un boliviano povero.
Grazie ai ricavati dei prodotti fatti con la pianta di coca, i contadini boliviani sono riusciti a costruire scuole, ospedali e strade e ad istituire un sistema di assistenza sociale funzionante.
D'altro canto, però, i controlli non sono aumentati e il narcotraffico in queste zone è cresciuto esponenzialmente, causando deforestazione selvaggia e inquinamento idrico.

Per fortuna la polizia di solito non combatte la droga spruzzando sostanze tossiche nell'aria. Allora come mai non riesce a fermare il narcotraffico?
Purtroppo per la legge è impossibile agire in modo efficace: anche se si riuscisse a sequestrare tutti i carichi provenienti dal Sudamerica, i narcotrafficanti avrebbero dei rifornimenti tali da soddisfare la domanda di tutta l'Italia per tre mesi.
Inoltre dieci anni fa hanno diversificato il mercato: accanto alle grosse e costose dosi per i ricchi, oggi ci sono quelle più piccole ed economiche per le classi più povere. Ciò ha reso la cocaina un prodotto trasversale, cioè qualcosa che non interessa solo alcune classi sociali, ma le coinvolge tutte allo stesso modo.

In alcuni Paesi, poi, la lotta al narcotraffico è ancora più difficile, perché spesso con i soldi derivanti dal commercio di droga si pagano le campagne elettorali di candidati che in cambio non daranno fastidio ai trafficanti.
Per usare le grandi quantità di denaro che derivano dallo spaccio, infatti, i soldi devono essere depositati in diversi conti e spostati continuamente da un conto all'altro e da una banca all'altra fino a che non si capisce più chi lo abbia depositato per primo e dove. A quel punto è pronto per essere investito.

Un altro aspetto al quale non si pensa mai quando si affronta il problema dell'abuso di sostanze è quello dell'assistenza sanitaria che in futuro dovremo dedicare ai consumatori di oggi: quale sarà il loro stato di salute? Fino a che età potranno essere produttivi e da quale punto in poi diventeranno solo un costo sociale? 
Le domande sono fondate: esistono tossicodipendenti che non arrivano ai quarant'anni e hanno il cervello di un ottantenne, con tutto il rispetto per la terza età.
Se state pensando che un tossicodipendente non arriva ad una certa età e muore prima di diventare un peso, vi sbagliate: nessuno vi ha detto che si muore molto di più per l'uso di tabacco e alcol che non per uso di droga. Le proporzioni sono rispettivamente di 50 e 10 contro 1.
A confermare la mia tesi, l'esistenza di ospizi per tossicodipendenti in Olanda. Età media degli ospiti: settant'anni.

Negli ultimi anni, il proibizionismo che riguarda le droghe ha dimostrato di non essere la soluzione a nessuno dei problemi legati alla droga: il profitto del narcotraffico equivale all'8% dell'economia mondiale e costituisce l'80% dei profitti della malavita; la criminalità ha subito un aumento del 500%; cifre enormi vengono spese per combattere i crimini legati allo spaccio e all'uso di droghe; l'uso di queste ultime continua ad aumentare inesorabilmente.
Due parole anche sulla legalizzazione: essa prevede l'uso di droghe limitatamente a determinate condizioni stabilite dalla legge, come già avviene per fumo e alcol. Non stiamo parlando, quindi, di liberalizzare gli stupefacenti: ciò permetterebbe l'assoluta libertà di commercio senza vincoli legislativi.

Mettiamo che il governo italiano decida di legalizzare l'eroina. Potrà:

  • controllare la quantità di principio attivo presente nelle dosi e la purezza della sostanza, così da limitare decessi per droga e spese sanitarie ulteriori;
  • controllare la vendita, cioè essere certo di non vendere stupefacenti a minorenni, psicolabili e criminali;
  • controllare le quantità acquistate da un singolo, in modo da limitare i casi di spaccio;
  • diminuire la diffusione di malattie attraverso la fornitura di siringhe sterili e la messa a disposizione di luoghi idonei come le cosiddette stanze del buco (scusate l'articolo senza apostrofi, mi sembrava valido lo stesso);
  • offrire un aiuto immediato a chi decide di smettere o impedire che un consumatore possa passare da una droga meno pesante ad una più pericolosa;
  • impedire che una persona che ha commesso un reato sotto l'effetto della droga possa tornarne in possesso. Se ad esempio si fornisse una specie di "patente della droga" si potrebbe tenere sotto controllo ogni tossicodipendente, eventuali reati compresi, in modo da togliergli la patente e quindi la possibilità di rifornirsi della dose necessaria nel caso di una azione illecita.
  • prevedere lo stoccaggio delle sostanze di scarto della produzione di stupefacenti e limitare al minimo la deforestazione.
Ho letto diversi commenti a post che come il mio evidenziano la necessità di aiutare e sostenere il tossicodipendente secondo i quali è giusto che una persona del genere muoia, anche in circostanze terribili, visto che ha scelto di stare male.
Allora facciamo così: da oggi non si curano i malati di cancro ai polmoni che abbiano un passato (o un presente) da fumatori e si lasciano gli alcolizzati a morire di cirrosi epatica in mezzo ad una strada.
Anzi, già che ci siamo potremmo proibire di nuovo tabacco e alcol, per tornare ai magnifici anni '20.
Si stava così bene quando si poteva sorseggiare spirito nei club clandestini.

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lunedì 15 ottobre 2012

Laura Puppato e il PD che (non) cambia

In vista delle elezioni politiche del 2013, il 25 novembre 2012 si terranno le elezioni primarie del centrosinistra per eleggere il leader tra i partiti che fanno parte della coalizione: Pd, Sel e PsiI principali sfidanti sono il segretario del Pd Pierluigi Bersani, il sindaco di Firenze Matteo Renzi (di cui abbiamo già avuto modo di parlare su questo blog) e il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola
Tra i candidati "minori", però, ce n'è una (ebbene si, una donna) di cui si parla molto poco ma che suscita la simpatia di molti, compreso Beppe Grillo: è Laura Puppato, che ha comunicato la sua candidatura il 13 settembre scorso.

Classe 1957, proveniente dalla provincia di Treviso, abbandona la facoltà di scienze politiche per dedicarsi alla maternità. 
Attivista e presidentessa di una sezione del WWF, si candida a sindaco di Montebelluna per scongiurare la costruzione di un inceneritore nella zona: viene appoggiata dall'Ulivo e, a sorpresa, vince. Sarà rieletta nel 2007 e sotto la sua guida il comune è diventato il primo tra quelli con più di 25mila abitanti a riciclare tutti i suoi rifiuti. 
Sfiora le elezioni europee col Pd nel 2009, diventa consigliere regionale nel 2010 per la Regione Veneto con un alto numero di preferenze nonostante l'esito disastroso del suo partito, del quale diventa capogruppo nella stessa Regione.
Infine, la candidatura di cui sopra.

Come lei stessa tiene a chiarire ogni volta che qualcuno gliene dà la possibilità, candidandosi non ha cercato lo scontro né con Renzi, né con Bersani: ha voluto piuttosto proporre un'alternativa ad una lotta fratricida in seno ad un partito che ha perso molti dei suoi elettori. Parlare solo di elezioni ha distolto l'attenzione dei politici dai programmi e dalle proposte ai cittadini, i quali vorrebbero vederli impegnati a risolvere i problemi della comunità invece di assistere ai battibecchi per le poltrone.
Nonostante affermi di avere un ottimo rapporto con Bersani, la Puppato contesta il rapporto del partito di cui è segretario con i giovani: le loro candidature dipenderebbero non da competenze specifiche, ma dal loro grado di fedeltà a chi comanda. Non è clemente nemmeno con Renzi: quella della lotta generazionale sarebbe una trovata per raccattare voti. Salvo poi ammettere che al Pd serviranno la competenza del più anziano unita alle energie del più giovane... magari con una donna al comando a fare da paciere.

Dal suo sito apprendiamo che la campagna elettorale toccherà una trentina di città raggiunte esclusivamente in treno e si baserà sull'aiuto di volontari e comitati sorti spontaneamente in giro per il Paese. 
La comunicazione sarà portata avanti tramite internet (la Puppato ha un blog sul Fatto Quotidiano e  uno su Micromega, il già citato sito, e profili su praticamente tutti i social network esistenti) e l'obiettivo sarà di ottenere il massimo risultato con la minima spesa.

Andiamo al sodo: cosa farebbe Laura Puppato se venisse eletta a capo del partito e magari anche del Paese?
Il suo programma è orientato principalmente all'economia verde, al risparmio energetico e allo stop edilizio: niente più nuove costruzioni a deturpare l'Italia, meglio ristrutturare quelle che già ci sono. 
Quali siano le energie da sfruttare (idrica? eolica? geotermica?) non viene specificato, come anche quali possano essere i siti da prendere in considerazione per la costruzione di nuovi impianti o quali saranno i fondi stanziati a questo scopo.
Nessun accenno al finanziamento alla ricerca in campo tecnologico per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale o a temi di importanza capitale come grandi opere (TAV o non TAV?) e acqua pubblica.

Sotto la voce lavoro, la proposta base si riallaccia all'idea dell'energia sostenibile, che porterebbe migliaia di nuovi posti di lavoro. 
La proposta più concreta è quella di assicurare un posto di lavoro stabile alle nuove generazioni attraverso una diminuzione del 30% del costo dei contratti a tempo indeterminato, di cui un 20% recuperato dal fisco e un 10% di riduzione del salario dei nuovi assunti. 
Come dire: stipendio basso, tasse più alte ma almeno un lavoro con cui pagarle.
Inoltre la Puppato auspica che si possa depennare il contratto a tempo determinato per sostituirlo con qualcosa di più rispettoso dei diritti del lavoratore. Il programma, però, non scende nei dettagli.

Altra tematica importante per un politico italiano è quella dei costi della politica: il programma parla di imporre un tetto ai finanziamenti pubblici ai partiti, impone trasparenza di bilancio e criteri di massima onestà per la scelta di candidati da parte del partito, il quale dovrà rifiutare chiunque non sia incensurato. Criteri che non vengono chiariti.
In tema di diritti civili, invece, emerge una politica più decisa: Laura Puppato è favorevole al testamento biologico, al riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di immigrati, alle unioni tra omosessuali e alla fecondazione eterologa
Sono queste, forse, le principali differenze emerse tra lei e gli altri candidati alle primarie e lei stessa riconosce di essere praticamente la sola a sostenere queste posizioni.

La maggiore critica che la Puppato fa al suo partito è di non riuscire a prendere delle decisioni per paura di deludere una parte degli elettori. Da oggi, però, se ne aggiunge un'altra: in un'intervista a Libero emerge l'ultima polemica riguardante i meccanismi poco chiari delle primarie
Già nei giorni scorsi, infatti, era stato chiesto ai candidati di raccogliere "95 firme tra i delegati all'Assemblea Nazionale o, in alternativa, le firme del 3% degli iscritti al Pd (18mila persone). Il tutto in una settimana", e ancora, "sabato è stato deciso che, oltre a quanto detto, i candidati debbano in soli 10 giorni (entro il 25 ottobre) raccogliere 20mila firme di elettori del centrosinistra, riconosciuti non si sa bene come, con il limite di non più di 2mila per Regione".
Insomma, una farsa per favorire la candidatura dei soliti noti, che spiegherebbe anche come mai sia stato concesso poco spazio alla Puppato su tv, giornali e radio.

Laura Puppato appare a molti elettori del centrosinistra come la persona più credibile e onesta che il partito possa offrire in questo momento: non ha pendenze con la giustizia, afferma con forza le sue posizioni in campo di diritti civili ed è un'icona di sobrietà. 
Lavora però all'interno di un partito che la critica aspramente o peggio la censura. Critica le lotte di potere e poi le alimenta candidandosi a sua volta. Critica atteggiamenti classisti di chi vuole rottamare il partito e poi cerca l'appoggio delle associazioni femministe per il solo fatto di essere una delle poche donne in politica, come se la lotta tra sessi non fosse controproducente esattamente come quella generazionale.
Inoltre, fermo restando che energie rinnovabili e sviluppo sostenibile possano e debbano essere una grande risorsa per il nostro Paese, c'è da chiedersi come mai una che parla di sviluppo appoggi in pieno un governo tecnico foriero di riforme suicide per la nostra economia. 
Europeista al punto di candidarsi alle elezioni europee del 2009, la Puppato ha affermato che l'Unione ha portato enormi benefici a Paesi come Spagna, Portogallo e Grecia, tralasciando di dire che proprio in questi mesi gli stessi Paesi sono strozzati dalla BCE e dal FMI con un Piano volto a soddisfare le esigenze dei più forti della zona euro.
Il governo tecnico che il Pd ha sempre appoggiato sta smantellando la scuola e tagliando migliaia di posti di lavoro. Come fa un politico che appoggia Monti a parlare di sviluppo, oltretutto diffondendo un programma che diventa misteriosamente fumoso proprio nei punti in cui i cittadini aspettano risposte concrete e in contrasto con l'austerity che ci è stata imposta?

Si ha l'impressione che i politici, per quanto in buona fede come sembra essere Laura Puppato, si accontentino di gridare al nuovo proponendo all'elettore la solita minestra riscaldata di sempre: si proclamano paladini dalle idee rivoluzionarie, ma non sono in grado di proporre programmi precisi, puntuali e credibili, limitandosi a ricalcare le politiche dannose e fallimentari di chi continua ad assicurare loro i privilegi di cui hanno goduto per anni. 
Ma soprattutto hanno perso il contatto con chi dovrebbe sostenerli.

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mercoledì 10 ottobre 2012

L'imprevedibile viaggio di Harold Fry

Il titolo, oltre a suscitare curiosità, risulta particolarmente azzeccato: di imprevedibile in questo viaggio c'è molto, inizio a parte.

Siamo nella tranquilla cittadina inglese di Kingsbridge, in casa di una inglesissima coppia di anziani. Entrando, ci colpisce l'immagine di un uomo rassegnato, Harold, che subisce l'acidità della moglie Maureen come se non avesse mai smesso di rimproverarlo. Un matrimonio normale, direbbero alcuni. Ma una lettera inattesa apre uno squarcio nel vissuto quotidiano: Queenie, amica di vecchia data di Harold, gli annuncia di avere il cancro e lo ringrazia della sua amicizia. Gli sta dicendo addio: è talmente evidente che lui scoppia a piangere, rivelandosi in tutta la sua debolezza e sensibilità. 
Tenta di risponderle con qualche frase di circostanza: l'amica lo ha fatto sentire in colpa perché non l'ha cercata in tanti anni di lontananza e lui è deluso, arrabbiato, addolorato. Maureen mormora che le dispiace, torna a sbrigare le sue faccende e lo accompagna borbottando alla porta quando lui va ad imbucare la lettera.
Harold ha fame e si ferma a mangiare un hamburger. Scambia due parole con la ragazza che lo serve, piuttosto insulsa e dall'aria stupida. Le parla di Queenie con ingenuità disarmante e lei gli parla di una sua zia, anche lei colpita dal cancro. Gli dice che l'unica possibilità è nella fede, ma non in senso religioso: bisogna credere di poter fare la differenza, perché sono tante le capacità che non sappiamo di avere. 
Uscendo dal fast food, Harold non riesce a smettere di pensare alla sua responsabilità nei confronti della malata e comincia pian piano a convincersi di poter fare qualcosa di concreto per lei. Evita di imbucare la lettera alla prima occasione, poi alla seconda, alla terza. Continua a camminare. Ad un tratto, fa una promessa: "finché camminerò, lei vivrà".
Non si può pensare che Harold creda davvero in un patto con Queenie, né che effettivamente una cameriera sia riuscita a trasmettergli una forza simile. Perché Harold è ancora l'uomo remissivo, debole e ingenuo che abbiamo conosciuto all'inizio. Eppure sostituisce il biglietto destinato all'amica con uno in cui le chiede di attenderlo finché non arriverà e dopo chiama la moglie per dirle che è partito. Maureen si infuria, protesta, ma non può impedirglielo.
Rimarrà a casa a fissare il telefono e ad aspettare le cartoline che la informano dei suoi progressi, ma soprattutto a riflettere.

Si, perché non bisogna farsi ingannare: la copertina è molto spiritosa, lo stile è scorrevole, la storia è piena di avventure, ma riuscire a star dietro ad Harold è molto difficile. 
Con un nome adatto più ad un cartone animato che ad un uomo della sua fragilità, Harold suscita tenerezza in chi lo incrocia e a volte viene deriso per il suo progetto, ma non è un semplice credulone. E' un uomo disperato in cui qualcosa è esploso vent'anni prima, distruggendo quel poco di serenità che era riuscito a conquistare dopo un'adolescenza difficile, terminata bruscamente quando il padre lo ha messo alla porta, all'età di 16 anni. 
La sua vita, più che affiancarlo nel cammino, lo insegue. La parte più facile è proprio camminare, mentre sono i ricordi a trafiggergli i piedi ed incurvargli le spalle. La sua onestà intellettuale e la sua nuova coscienza, costruita giorno dopo giorno e un piede avanti all'altro, sottolinea i suoi limiti e glieli agita sotto il naso, chiedendogli di superarli. 

Ogni tappa del suo viaggio lo porta ad una conquista. 
Innanzitutto riacquista il suo rapporto con la terra, che gli ha dato la vita e non ha mai smesso di mostrarsi in tutta la sua bellezza e la sua generosità. Da subito, infatti, Harold e la natura sembrano vivere in simbiosi: cieli infiammati dal sole dell'alba per la sua meraviglia, oceani di fiori per i pensieri che hanno bisogno di più spazio, nuvole di un grigio tagliente per i ricordi dolorosi, pioggia battente per un senso di abbandono e smarrimento che non lo lascia mai.
Il primo a dimostrargli di non essere all'altezza è il corpo: talloni induriti, dolori lancinanti ai polpacci e lividi accompagnano i bisogni più comuni, quelli che ci spingono a rifugiarci in casa, sotto un ombrello, fra i lembi di un cappotto. Harold rinuncia ad ogni protezione e accetta il dolore fisico, portandolo con sé come un compagno di viaggio, il più fedele. 
Il secondo grosso limite è la solitudine: la avverte come una colpa che gli altri gli hanno inflitto per la sua inadeguatezza e si rimprovera di continuo per la sua mancanza di carattere, con la quale giustifica la carenza di affetto nei suoi confronti da parte di persone importanti come sua madre. 
Ma continua a camminare, obbedendo ad un impulso fortissimo e scopre di avere una grande virtù: quella di saper ascoltare. Sono tante le storie che Harold ascolta durante il viaggio e le persone che riesce ad aiutare per il solo fatto di aver preso una decisione così grande, proprio lui che ha paura di disturbare con un rumore di troppo o una parola inopportuna, lui che ha passato la vita a tenere la testa bassa e ad evitare qualsiasi contatto fisico con gli altri. Anche la sua attitudine a passare inosservato si trasforma in un punto di forza: le persone vedono in lui la loro stessa fragilità e si abbandonano al dialogo.
Il contatto con gli altri, improvvisamente così intimo, diventa totale quando un gruppo di proseliti comincia a seguirlo e a trattarlo come fosse il loro guru. Sono persone altrettanto disperate che non hanno la forza di mettersi in cammino da sole e hanno bisogno di qualcuno che le guidi, ma senza condividerne completamente gli intenti; tra loro, alcuni manipoleranno Harold per i loro interessi, altri semplicemente lo abbandoneranno, facendogli rivivere i momenti più dolorosi della sua esistenza.
La semplicità di Harold impone un cambiamento anche in Maureen, che si era abituata ad addossargli le colpe di tutta una vita e ora, davanti alla sua presa di coscienza, deve rassegnarsi a deporre le armi e a mettersi in cammino pur rimanendo a casa. Guardarsi indietro significherà trovare la forza di andare avanti, soprattutto per il bene del marito, che la sta aspettando per l'ultima tappa, la più difficile.
Alla fine del suo viaggio, Harold deve affrontare il suo limite più grande: l'impotenza. Ha capito di essere mortale, fragile, limitato, inadeguato, ma non ha smesso di camminare perché pensava, in questo modo, di esercitare un potere sulla vita. Anche la sua ultima certezza, però, verrà messa in discussione per sempre.

Dunque, un bel libro. Non bellissimo: la parte centrale si concentra unicamente sulle emozioni dei personaggi e sulla loro evoluzione psicologica. Le loro vite si rivelano ai nostri occhi come carte da gioco: un ricordo dopo l'altro scivola lentamente nelle mani del giocatore di poker, lasciandoci in attesa della prossima carta, del prossimo pezzo del puzzle. Poi, improvvisamente, verso la fine la storia mette il turbo e siamo sopraffatti da una valanga di novità: neanche un americano avrebbe dato spazio a tanti colpi di scena. E pensare che la Joyce è inglese.
Di sicuro l'autrice o chi per lei ha fatto un lavoro di promozione molto valido: la copertina è vivace e giovanile, al punto da far pensare ad un libro per ragazzi, la storia è curiosa e avvincente, i personaggi sono credibili e le emozioni sono descritte con acume e sensibilità. 
La natura è forse un pò troppo presente: le descrizioni del panorama abbondano e verso la fine diventano un pò stancanti. 
Harold è su twitter, su facebook e in radio, ne hanno parlato persino alla BBC. Figuratevi che, quando ho acquistato il libro, mi è stata regalata una shopper di tela con la stampa del percorso di Harold!
Insomma, ha tutta l'aria di un best seller e noi glielo auguriamo.

Harold si è lasciato morire per vent'anni, stanco di soffrire. Ma quando un'amica sincera, forse l'unica che abbia mai avuto, gli scrive per dirgli addio, lui si ritrova a camminare da un capo all'altro dell'Inghilterra con un paio di scarpe da vela ai piedi. Insieme a lui comprendiamo il dovere di essere indifesi di fronte alla vita, di accettare il male che ci dà e di lasciarci amare da lei. Follemente.

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