martedì 30 ottobre 2012

Lucernario - José Saramago

Amanti di Saramago, siete avvisati: di questi tempi entrando in libreria rischiate l'infarto
Cosa succede, infatti, a uno che vede un volume col nome del famosissimo autore portoghese sullo scaffale delle Novità
Per chi non lo sapesse, Saramago è morto nel 2010.
La cosa migliore da fare è rimanere calmi e osservare meglio la copertina, che recita: il romanzo perduto del Premio Nobel per la letteratura.

E' successo questo: nel 1999 una casa editrice ha ritrovato un manoscritto consegnato nel lontano 1953 da un ragazzo di trentun'anni. Il giovane José era un meccanico figlio di analfabeti e privo di studi universitari, ma credeva molto nel suo sogno; aspettò una risposta per molto tempo, poi capì che l'editore non lo avrebbe mai contattato e non la prese molto bene.
Quarantasei anni dopo è arrivata la telefonata tanto attesa, ma ormai era troppo tardi: quello che era diventato un grande scrittore è andato a riprendersi il manoscritto e non ha voluto che lo pubblicassero finché fosse stato in vita.
E poi è morto. Cose che succedono a tutti. E ora eccolo là, ad ammiccare dall'alto di uno scaffale come se fosse ancora tra noi.

In effetti è come riviverlo: la capacità di tratteggiare personaggi anche molto diversi tra loro, di indagarne le intenzioni più nascoste, di dare un senso ad ogni loro gesto o sguardo è già evidente, anche perché al centro del romanzo c'è la famiglia con le sue dinamiche complesse da capire e soprattutto da descrivere. 
Saramago mette in discussione il principio e i valori che ci portano a scegliere di innamorarci, di sposarci e avere dei figli. La giovane età dell'autore, quindi, non si avverte dallo stile, già maturo e riconoscibile, ma dalla convinzione che l'amore, essendo una scelta, come tale possa essere più o meno ponderato o giustificato.

Le realtà che possono nascere dalla scelta di amare qualcuno sono le più varie: nel romanzo sono comprese nell'abbraccio immaginario di un condominio, dove persone completamente diverse tra loro devono convivere e sono costrette, loro malgrado, a dividere un pezzetto della propria esistenza con gli altri.
A volte è l'invadenza di un vicino che ti fa qualche domanda quando esci di casa, a volte è il suono dei passi al piano di sopra a denunciare che la signora è ancora sveglia: non c'è modo di sottrarsi alla curiosità altrui e ognuno interpreta i rumori dell'altro come vuole, attribuendogli significati che spesso esistono solo nella sua testa.
Nel condominio in questione la tensione è palpabile, la curiosità è tanta e tutti parlano di tutti.
Credibile, direi.

La prima famiglia ad essere presentata è anche quella che farà da colonna sonora del racconto e incarna l'amore positivo e duraturo nel tempo: Silvestre è un calzolaio e Miriana è la sua gigantesca moglie. 
Sono loro ad introdurre un altro personaggio chiave: il giovane Abel, vagabondo tuttofare, occuperà una delle loro stanze per contribuire col suo affitto alle spese quotidiane.
Abel cerca continuamente di sottrarsi ai legami perché li trova vuoti e privi di scopo, ma non può evitare di affezionarsi molto a Silvestre e il loro rapporto emula quello tra un padre ed un figlio: sentimentalmente vicini, saranno sempre separati da un modo diverso di intendere la vita, l'uno rassegnato al passato e l'altro in lotta col futuro.
Nella paura di affrontare ciò che verrà e nella polemica nei confronti di chi ha già vissuto, tipica di chi deve vivere ancora, si intravede José ragazzo mentre scrive il suo romanzo.

Il rapporto filiale è stravolto nel caso di Emìlio e di suo figlio Henriquinho: tra loro troneggia Carmen, moglie tutt'altro che devota e madre isterica. 
Il bambino è l'unico punto di contatto tra una spagnola che vorrebbe tornare indietro nel tempo per sposare il cugino ricco e un rappresentante stanco di tutto, consapevole che il suo matrimonio è stato un errore e che per questo non riesce ad avere nemmeno un contatto col frutto del suo amore morto da tempo. 
Henrique è troppo piccolo per capire certe dinamiche, ma ci viene presentato con l'acume e la sensibilità tipici dei bambini, capaci di intuire una situazione complessa e condannati ad esserne influenzati per il resto della vita. 
In lui c'è forse José bambino, gli occhioni spalancati ad osservare gli adulti di cui scriverà nei suoi libri.

Anche Maria Claudia, che vive con i genitori Anselmo e Rosalìa, conserva il diminutivo infantile di Claudinha, ma piccola più non è: i suoi la trattano come una ragazzina da educare, alla quale vietare ciò che è sconveniente e per la quale desiderare un buon lavoro e un marito. 
Ciò però non crea problemi alla ragazza che, anche se giovane, è donna fatta e finita per quanto riguarda consapevolezza e intenzioni. Pur non possedendo ancora il garbo della donna matura, sa perfettamente di essere molto bella e di avere un forte ascendente su chi la circonda: riesce sempre ad ottenere quello che vuole e si fa le unghie sui genitori, ai quali dice ciò che vogliono sentirsi dire mostrandosi come la figlia che loro credono di aver educato.

A volte, invece, sono i genitori a sfruttare i figli per il proprio profitto. 
Nel caso di Lidia, per esempio, femminilità e sensualità sono fondamentali non solo per la sua sopravvivenza, ma anche per quella della madre. Quest'ultima sa che la figlia abita in una casa acquistata e ammobiliata dal suo amante, un ricco imprenditore che la mantiene e le procura ciò di cui ha bisogno, per cui si presenta a casa sua un paio di volte al mese per riscuotere un vero e proprio mensile, interessandosi alle sorti della ragazza solo se l'ipocrisia lo richiede.
Lidia vive molto male la sua condizione, non tollera di dover vendere il proprio corpo per andare avanti ed è additata da tutti i condomini, ma forse proprio per questo non riesce a fare a meno della figura materna, accettandone un surrogato pur di non farne completamente a meno.

Ad unire Justina e Caetano, invece, non c'è più nemmeno un figlio: una malattia ha avuto l'accortezza di portare la loro bimba all'altro mondo, lontano da un padre sessuomane, rozzo e meschino e da una madre che ha l'unica colpa di essere brutta come la fame.
Caetano si butta su qualsiasi donna che non sia la sua ed esplode di frequente in attacchi di rabbia contro la moglie. Justina, dal canto suo, si è rinchiusa nel suo mondo e vive in una sorta di coma indotto, riemergendo solo per elaborare qualcosa da dire all'uomo che si ritrova in casa. 
Pochissimi dialoghi pieni di disprezzo per due personalità che, nonostante le apparenze, sono molto forti e cercano di sopraffarsi a vicenda: lui per maschilismo, lei per sopravvivenza.

La convivenza forzata per convenienza economica giustificata dalle parentele unisce l'ultimo gruppo familiare, quello delle anziane Amélia e Candida e delle figlie di quest'ultima, Isaura e Adriana
Due donne che hanno avuto l'amore e l'hanno perso e due ragazze non più giovanissime che non l'hanno ancora vissuto; le une concentrate sulle poche cose che servono per tirare avanti, le altre non ancora pronte a rassegnarsi e a chiudere i sogni in un cassetto, tra una ciocca di capelli e ciò che resta di una fotografia.
L'insoddisfazione non è evidente come nelle famiglie vicine perché le quattro sono legate da un affetto sincero, ma è lì, strisciante, la speranza di una vita migliore che avvelena i pochi momenti belli di una giornata. 
Non ce n'è abbastanza per dire di aver vissuto e loro lo sanno.

Un lucernario è un'apertura più piccola di una finestra che si apre sul soffitto per far entrare un pò di luce in una stanza. 
Abel è sul tetto del condominio, col naso appiccicato al vetro: se ne stà appollaiato a guardare cosa fanno gli altri per adattarsi al modo strano che ha la vita di metterci davanti ai nostri desideri come se ci guardassimo in uno specchio deforme.
Tutto ciò che credevamo indispensabile per essere felici, l'amore in primis, obbedisce a regole oscure. Il legame tra un padre e un figlio può diventare una catena che ci cade addosso quando tentiamo di rialzarci, un marito e una moglie si scoprono sconosciuti che viaggiano in direzioni opposte, bisogna difendersi da sorelle e madri pericolose.
Stiamo insieme lo stesso, aggrappandoci alle convenzioni, stretti sotto il lucernario per cogliere un raggio di sole. Abel ci guarda dall'alto e sa che prima o poi dovrà scendere a farci compagnia, quando gli ideali cederanno il passo all'istinto. Ci chiede che senso abbia tutto questo e perché dovrebbe scendere dal tetto, ma non abbiamo risposte da dargli.

Lenta, dal lucernario, cade la notte con le sue stelle, a riposarsi su occhi stanchi di vedere e a confermarci l'unica certezza: il buio.

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venerdì 26 ottobre 2012

Surplus: Terrorized Into Being Consumers.


Oggi parliamo di un documentario del 2003, anzi di un art-documentary pluripremiato da leccarsi gli occhi. Argomento: il terrore di obbedire ad un sistema, quello consumistico, che non ci appartiene e che ci rende schiavi.


Erik Gandini ha colto nel segno.
Non stiamo parlando del solito film su quanto è brutto e cattivo il consumismo, su quante cose sprechiamo, sul nostro impatto ambientale devastante, sulla ricchezza di alcuni contrapposta alla povertà di molti: tematiche sicuramente interessanti delle quali non si può e non si deve smettere di parlare. 
Qui c'è qualcosa di più, qualcosa che ci fa rimanere incollati allo schermo per tutto il tempo in contemplazione mentre i nostri neuroni esultano in esplosioni da fuochi artificiali nel nostro piccolo mondo: finalmente cibo vero per il nostro cervello, non la solita sbobba da cinepanettone o gli insulti televisivi del già-visto-già-sentito.

John Zerzan, grande protagonista del film, è l'anarchico ideatore del Primitivismo, teoria che propone il ritorno all'età della pietra come soluzione alla distruzione dell'ambiente a causa della sovrapproduzione di beni che in realtà non servono a nessuno. 
Secondo lui la società mondiale si basa sulla trappola del consumo: non è mai abbastanza, siamo obbligati ad acquistare oggetti solo perché ce lo dice la pubblicità, la cui arma migliore è lo spot di trenta secondi. Affascinati dalla possibilità di sentirci migliori semplicemente spendendo dei soldi, corriamo al supermercato e ci riempiamo i carrelli di stupidaggini, ma il nostro vuoto interiore non accenna a diminuire e ci accorgiamo di essere solo i piccoli ingranaggi di un sistema mastodontico. 

Il documentario si apre con le immagini del G8 di Genova (2001) e della distruzione perpetrata dai Black Block: Zerzan è stato accusato di essere il loro capo ideologico perché sostiene che chi protesta pacificamente non viene ascoltato, mentre chi passa alle vie di fatto viene quantomeno notato. Attenzione: alla base di questa affermazione c'è la convinzione che il danno alla proprietà non è violenza; quella ai danni di persone fisiche viene fortemente deprecata, mentre si sente in sottofondo il coro dei protestanti intonare "polizia assassina" e scorrono le immagini del corpo senza vita di Carlo Giuliani.
A conferma di quanto il sistema sia fallimentare, Svante, un ragazzo diventato milionario grazie ad internet, parla di quanto si senta inutile e di quanto sia difficile spendere i soldi che ha guadagnato: sa di poterci fare molte cose, ma non sente l'esigenza di alcuna di esse.



A scanso di equivoci, il film prende le distanze anche dal comunismo, rappresentato nella realtà vivente di Cuba con il suo Fidel Castro: i suoi discorsi granitici pieni di orgoglio sono contrapposti alle immagini di negozi vuoti. Mirta, mostrando il suo tubetto di dentifricio, dice di sapere esattamente di che marca sia, ma che ormai non serve più specificarlo; spiega che il razionamento è un ottimo metodo per assicurare a tutti i beni di prima necessità. Intanto Tania, una ragazza cubana che è andata a trovare i suoi amici in Inghilterra, parla con adorazione entusiastica della possibilità di mangiare un enorme Big Mac da Mc Donald, dello shock di vedere supermercati zeppi di cose, della meraviglia di poter fare zapping tra un canale e l'altro.

Dunque, da una parte il consumismo con la falsa libertà di scegliere tra una marca e l'altra, dall'altra il comunismo con la falsa dignità di una dittatura basata su uno stile di vita modellato più sui limiti imposti dall'embargo che non su un'ideologia che non può essere imposta ad un intero popolo. 
Volti sorridenti di chi non ha nulla, costretto a spaccarsi la schiena in luoghi fatiscenti e inquinati, occhi delusi di chi ha tutto e non sa che farsene. 
E ancora Zerzan, a dirci che sono in pochi a rendersi conto di tutto questo e che il resto vive da pecora, mangiando cibi spazzatura davanti ad una tv sempre accesa per poi trovarsi un lavoro inutile come la propria vita, sforzandosi di sentirsi felice.

Pesante? No, per due motivi: la fotografia di Carl Nilsson e  Lukas Eisenhauer e la colonna sonora
La prima riesce a proporre immagini mai viste anche se riferite a concetti e situazioni vecchi di almeno cinquant'anni, mixate neanche fossero sequenze musicali. La musica, poi, esprime tutto quello che siamo diventati: frammenti sonori slegati l'uno all'altro, impiantati l'uno sull'altro, dipendenti l'uno dall'altro; ad ogni effetto se ne aggiunge un altro, poi un altro ancora in un crescendo meccanico, senza espressione, quasi fossero i rumori della macchina di cui siamo le rotelle, tutte sostituibili, anonime, uguali, ripetitive fino alla morte. 
Le stesse parole dei personaggi e i loro pensieri sono ripresi più volte, ripetuti ritmicamente e strumentalizzati: da Fidel che mima un "I love this company" con la voce di Steve Ballmer , CEO della Microsoft diventato famoso soprattutto per un comizio penoso in cui saltava e urlava su un palco la sua appartenenza ad una delle società migliori del mondo (ovviamente ripreso nel film), a Bush che si augura il risveglio delle coscienze contro lo sfruttamento. 

In una parola: geniale.

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domenica 21 ottobre 2012

Legalizzare le droghe fa bene all'ambiente


Non ho mai fatto uso di droghe pesanti e non perché non ne avessi avuto la possibilità ma perché ho sempre pensato che se per stare bene avessi avuto bisogno di una sostanza, avrei avuto un problema grave da risolvere: l'incapacità di essere felice giorno per giorno.
Non è che io riesca sempre a sorridere, ma ci sto lavorando.
Ad ogni modo, in questo articolo non prendo le difese della droga in sé, ma espongo una maniera di affrontare il problema che non sia repressivo. I vari tentativi di eliminare le tossicodipendenze rendendo illegali le sostanze, infatti, oltre che improduttivi sono stati molto dannosi. E vado a spiegare il perché.

Per cominciare, affrontiamo la questione da un punto di vista diverso dal solito: l'incidenza della produzione di droga sull'ambiente.
Le sostanze stupefacenti e i loro metaboliti (cioè ciò che viene fuori ogni volta che le molecole delle droghe vengono trasformate dal nostro corpo o dall'uso che ne facciamo, per esempio quando le bruciamo) sono l'ultimo gruppo di inquinanti del nostro Pianeta, ovvero quello più recente. Tanto che le informazioni sulla loro presenza nell'ambiente sono scarse e la gran parte degli studi riguarda il Nord America e l'Europa. 
Peccato che le droghe vengano prodotte in Paesi poverissimi: è lì che vanno ricercate le conseguenze della loro produzione: dallo sversamento di sostanze di scarto nei corsi d'acqua alla deforestazione necessaria per intraprenderne le colture.
Però qualcosa si sa.
L'Università di Lima, per esempio, ha calcolato che in un solo anno i trafficanti della Valle Superiore dell'Hullaga hanno scaricato 100 milioni di litri di rifiuti speciali liquidi impiegati per la produzione di pasta di coca dentro il bacino del fiume omonimo, che confluisce nel Rio delle Amazzoni. A differenza di ciò che si potrebbe pensare i laboratori non sono solo in Sudamerica, ma anche in vaste aree dell'Asia, del Medio Oriente e dell'Europa dell'Est.
Solo nel 2008 sono stati sequestrati quasi 18.500 laboratori illegali di produzione di stupefacenti, che usano sostanze chimiche e le scaricano nei terreni, nei fiumi e nelle reti fognarie.

In termini di spreco di megawatts, il nemico numero uno è la marijuana: nelle coltivazioni clandestine si usano illuminazione artificiale, ventilatori a pale, deumidificatori e molto altro, per un consumo elettrico che negli USA del 2011 equivaleva all'1% di quello nazionale.
Ovviamente se le coltivazioni fossero legali si potrebbero fare all'aperto, senza bisogno di tutto questo.
La marijuana viene coltivata per metà della sua produzione in Messico, dove ha invaso le aree protette delle montagne della Sierra Madre Occidentale; alcuni piantatori californiani sono arrivati a deturpare parte della vegetazione del Sequoia National Park.

Tra le droghe meno ecologiche troviamo l'ecstasy, realizzata con olio di sassofrasso, un albero delle foreste pluviali del Brasile e Sud Est asiatico.

Una delle droghe più diffuse oggi è la cocaina.
Per ogni chilo servono: un chilo di calce, 80 litri di cherosene, 200 grammi di permanganato di potassio e un litro di ammoniaca concentrata.
Riuscite ad immaginare le conseguenze dello sversamento di queste sostanze nell'acqua che la gente della zona usa per mangiare, lavare e irrigare?
Tra Perù, Bolivia e Colombia è stata distrutta un'area più grande del Galles per permettere la coltivazione delle piante di coca, per la quale vengono utilizzati fertilizzanti e antiparassitari. I militari cercano di distruggerle via aerea con tonnellate di erbicidi che ammazzano flora, fauna e colture alimentari. Ah, e anche gli indigeni.
Ma su questo c'è da dire ben altro.

In Bolivia la pianta di coca è coltivata da più di 5000 anni e le foglie vengono masticate dalla popolazione come medicina contro qualsiasi male e per sopportare le altitudini alle quali i cocaleros, come vengono chiamati gli agricoltori che si dedicano a queste colture, devono lavorare.
Siete fuori strada se pensate che questa gente mastichi cocaina: per rendere tale una foglia di pianta di coca occorre un lungo processo durante il quale ad essa vengono aggiunti una serie di additivi chimici. Di sicuro una volta ci si faceva di tutto: saponi, alimenti, pomate e quant'altro: la foglia di coca è una miniera di vitamine, potassio, fosforo, minerali e proteine.

Poi sono arrivati gli americani, che hanno ritenuto loro dovere aiutare i boliviani a disfarsi di questa pericolosissima pianta. In realtà, come spesso accade, gli USA volevano soggiogare il mercato boliviano a quello statunitense in modo da approfittare della grossa quantità di materie prime a basso costo, per non parlare dei contadini disposti a lavorare in qualsiasi condizione pur di non morire di fame.
D'altra parte è la stessa cosa che hanno fatto con noi quando ci hanno impedito di coltivare marijuana come facevamo da sempre per poterci vendere i loro farmaci.
Ma questa è un'altra storia.

Il Plan Dignidad, conosciuto come Coca Zero, è un piano finanziato in gran parte dagli americani che prevede la distruzione delle coltivazioni di coca e la loro sostituzione con colture alternative. 
Era il 1997 e le Nazioni Unite decisero di contribuire con somme minime perché avevano già promosso un altro piano, Agroyungas, per il quale la coca era stata sostituita con il caffè, portando alla bancarotta 1500 agricoltori
Non erano tanto convinti, insomma.
Il Coca Zero coinvolgeva le forze armate, per cui si verificarono molte e gravi violazioni dei diritti umani causate dalla violenza della polizia. 
Più di 36mila famiglie che dipendevano dalla foglia di coca restarono senza fonti di sussistenza e i prodotti sostitutivi come ananas, arance, pepe nero e caffè non trovarono mercato.

Nel 2006, la svolta: al governo, per la prima volta nella storia della Bolivia, va un indigeno. Si chiama Evo Morales e sa perfettamente cosa fare con la coca.
Morales guidò il popolo verso la riappropriazione delle colture, pur condannando con forza la cocaina e soprattutto i narcotrafficanti: la paga per un contadino disoccupato che lavora per loro tutta la notte trasformando la foglia di coca in pasta base per la cocaina è di ben 50 euro, una somma enorme per un boliviano povero.
Grazie ai ricavati dei prodotti fatti con la pianta di coca, i contadini boliviani sono riusciti a costruire scuole, ospedali e strade e ad istituire un sistema di assistenza sociale funzionante.
D'altro canto, però, i controlli non sono aumentati e il narcotraffico in queste zone è cresciuto esponenzialmente, causando deforestazione selvaggia e inquinamento idrico.

Per fortuna la polizia di solito non combatte la droga spruzzando sostanze tossiche nell'aria. Allora come mai non riesce a fermare il narcotraffico?
Purtroppo per la legge è impossibile agire in modo efficace: anche se si riuscisse a sequestrare tutti i carichi provenienti dal Sudamerica, i narcotrafficanti avrebbero dei rifornimenti tali da soddisfare la domanda di tutta l'Italia per tre mesi.
Inoltre dieci anni fa hanno diversificato il mercato: accanto alle grosse e costose dosi per i ricchi, oggi ci sono quelle più piccole ed economiche per le classi più povere. Ciò ha reso la cocaina un prodotto trasversale, cioè qualcosa che non interessa solo alcune classi sociali, ma le coinvolge tutte allo stesso modo.

In alcuni Paesi, poi, la lotta al narcotraffico è ancora più difficile, perché spesso con i soldi derivanti dal commercio di droga si pagano le campagne elettorali di candidati che in cambio non daranno fastidio ai trafficanti.
Per usare le grandi quantità di denaro che derivano dallo spaccio, infatti, i soldi devono essere depositati in diversi conti e spostati continuamente da un conto all'altro e da una banca all'altra fino a che non si capisce più chi lo abbia depositato per primo e dove. A quel punto è pronto per essere investito.

Un altro aspetto al quale non si pensa mai quando si affronta il problema dell'abuso di sostanze è quello dell'assistenza sanitaria che in futuro dovremo dedicare ai consumatori di oggi: quale sarà il loro stato di salute? Fino a che età potranno essere produttivi e da quale punto in poi diventeranno solo un costo sociale? 
Le domande sono fondate: esistono tossicodipendenti che non arrivano ai quarant'anni e hanno il cervello di un ottantenne, con tutto il rispetto per la terza età.
Se state pensando che un tossicodipendente non arriva ad una certa età e muore prima di diventare un peso, vi sbagliate: nessuno vi ha detto che si muore molto di più per l'uso di tabacco e alcol che non per uso di droga. Le proporzioni sono rispettivamente di 50 e 10 contro 1.
A confermare la mia tesi, l'esistenza di ospizi per tossicodipendenti in Olanda. Età media degli ospiti: settant'anni.

Negli ultimi anni, il proibizionismo che riguarda le droghe ha dimostrato di non essere la soluzione a nessuno dei problemi legati alla droga: il profitto del narcotraffico equivale all'8% dell'economia mondiale e costituisce l'80% dei profitti della malavita; la criminalità ha subito un aumento del 500%; cifre enormi vengono spese per combattere i crimini legati allo spaccio e all'uso di droghe; l'uso di queste ultime continua ad aumentare inesorabilmente.
Due parole anche sulla legalizzazione: essa prevede l'uso di droghe limitatamente a determinate condizioni stabilite dalla legge, come già avviene per fumo e alcol. Non stiamo parlando, quindi, di liberalizzare gli stupefacenti: ciò permetterebbe l'assoluta libertà di commercio senza vincoli legislativi.

Mettiamo che il governo italiano decida di legalizzare l'eroina. Potrà:

  • controllare la quantità di principio attivo presente nelle dosi e la purezza della sostanza, così da limitare decessi per droga e spese sanitarie ulteriori;
  • controllare la vendita, cioè essere certo di non vendere stupefacenti a minorenni, psicolabili e criminali;
  • controllare le quantità acquistate da un singolo, in modo da limitare i casi di spaccio;
  • diminuire la diffusione di malattie attraverso la fornitura di siringhe sterili e la messa a disposizione di luoghi idonei come le cosiddette stanze del buco (scusate l'articolo senza apostrofi, mi sembrava valido lo stesso);
  • offrire un aiuto immediato a chi decide di smettere o impedire che un consumatore possa passare da una droga meno pesante ad una più pericolosa;
  • impedire che una persona che ha commesso un reato sotto l'effetto della droga possa tornarne in possesso. Se ad esempio si fornisse una specie di "patente della droga" si potrebbe tenere sotto controllo ogni tossicodipendente, eventuali reati compresi, in modo da togliergli la patente e quindi la possibilità di rifornirsi della dose necessaria nel caso di una azione illecita.
  • prevedere lo stoccaggio delle sostanze di scarto della produzione di stupefacenti e limitare al minimo la deforestazione.
Ho letto diversi commenti a post che come il mio evidenziano la necessità di aiutare e sostenere il tossicodipendente secondo i quali è giusto che una persona del genere muoia, anche in circostanze terribili, visto che ha scelto di stare male.
Allora facciamo così: da oggi non si curano i malati di cancro ai polmoni che abbiano un passato (o un presente) da fumatori e si lasciano gli alcolizzati a morire di cirrosi epatica in mezzo ad una strada.
Anzi, già che ci siamo potremmo proibire di nuovo tabacco e alcol, per tornare ai magnifici anni '20.
Si stava così bene quando si poteva sorseggiare spirito nei club clandestini.

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lunedì 15 ottobre 2012

Laura Puppato e il PD che (non) cambia

In vista delle elezioni politiche del 2013, il 25 novembre 2012 si terranno le elezioni primarie del centrosinistra per eleggere il leader tra i partiti che fanno parte della coalizione: Pd, Sel e PsiI principali sfidanti sono il segretario del Pd Pierluigi Bersani, il sindaco di Firenze Matteo Renzi (di cui abbiamo già avuto modo di parlare su questo blog) e il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola
Tra i candidati "minori", però, ce n'è una (ebbene si, una donna) di cui si parla molto poco ma che suscita la simpatia di molti, compreso Beppe Grillo: è Laura Puppato, che ha comunicato la sua candidatura il 13 settembre scorso.

Classe 1957, proveniente dalla provincia di Treviso, abbandona la facoltà di scienze politiche per dedicarsi alla maternità. 
Attivista e presidentessa di una sezione del WWF, si candida a sindaco di Montebelluna per scongiurare la costruzione di un inceneritore nella zona: viene appoggiata dall'Ulivo e, a sorpresa, vince. Sarà rieletta nel 2007 e sotto la sua guida il comune è diventato il primo tra quelli con più di 25mila abitanti a riciclare tutti i suoi rifiuti. 
Sfiora le elezioni europee col Pd nel 2009, diventa consigliere regionale nel 2010 per la Regione Veneto con un alto numero di preferenze nonostante l'esito disastroso del suo partito, del quale diventa capogruppo nella stessa Regione.
Infine, la candidatura di cui sopra.

Come lei stessa tiene a chiarire ogni volta che qualcuno gliene dà la possibilità, candidandosi non ha cercato lo scontro né con Renzi, né con Bersani: ha voluto piuttosto proporre un'alternativa ad una lotta fratricida in seno ad un partito che ha perso molti dei suoi elettori. Parlare solo di elezioni ha distolto l'attenzione dei politici dai programmi e dalle proposte ai cittadini, i quali vorrebbero vederli impegnati a risolvere i problemi della comunità invece di assistere ai battibecchi per le poltrone.
Nonostante affermi di avere un ottimo rapporto con Bersani, la Puppato contesta il rapporto del partito di cui è segretario con i giovani: le loro candidature dipenderebbero non da competenze specifiche, ma dal loro grado di fedeltà a chi comanda. Non è clemente nemmeno con Renzi: quella della lotta generazionale sarebbe una trovata per raccattare voti. Salvo poi ammettere che al Pd serviranno la competenza del più anziano unita alle energie del più giovane... magari con una donna al comando a fare da paciere.

Dal suo sito apprendiamo che la campagna elettorale toccherà una trentina di città raggiunte esclusivamente in treno e si baserà sull'aiuto di volontari e comitati sorti spontaneamente in giro per il Paese. 
La comunicazione sarà portata avanti tramite internet (la Puppato ha un blog sul Fatto Quotidiano e  uno su Micromega, il già citato sito, e profili su praticamente tutti i social network esistenti) e l'obiettivo sarà di ottenere il massimo risultato con la minima spesa.

Andiamo al sodo: cosa farebbe Laura Puppato se venisse eletta a capo del partito e magari anche del Paese?
Il suo programma è orientato principalmente all'economia verde, al risparmio energetico e allo stop edilizio: niente più nuove costruzioni a deturpare l'Italia, meglio ristrutturare quelle che già ci sono. 
Quali siano le energie da sfruttare (idrica? eolica? geotermica?) non viene specificato, come anche quali possano essere i siti da prendere in considerazione per la costruzione di nuovi impianti o quali saranno i fondi stanziati a questo scopo.
Nessun accenno al finanziamento alla ricerca in campo tecnologico per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale o a temi di importanza capitale come grandi opere (TAV o non TAV?) e acqua pubblica.

Sotto la voce lavoro, la proposta base si riallaccia all'idea dell'energia sostenibile, che porterebbe migliaia di nuovi posti di lavoro. 
La proposta più concreta è quella di assicurare un posto di lavoro stabile alle nuove generazioni attraverso una diminuzione del 30% del costo dei contratti a tempo indeterminato, di cui un 20% recuperato dal fisco e un 10% di riduzione del salario dei nuovi assunti. 
Come dire: stipendio basso, tasse più alte ma almeno un lavoro con cui pagarle.
Inoltre la Puppato auspica che si possa depennare il contratto a tempo determinato per sostituirlo con qualcosa di più rispettoso dei diritti del lavoratore. Il programma, però, non scende nei dettagli.

Altra tematica importante per un politico italiano è quella dei costi della politica: il programma parla di imporre un tetto ai finanziamenti pubblici ai partiti, impone trasparenza di bilancio e criteri di massima onestà per la scelta di candidati da parte del partito, il quale dovrà rifiutare chiunque non sia incensurato. Criteri che non vengono chiariti.
In tema di diritti civili, invece, emerge una politica più decisa: Laura Puppato è favorevole al testamento biologico, al riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di immigrati, alle unioni tra omosessuali e alla fecondazione eterologa
Sono queste, forse, le principali differenze emerse tra lei e gli altri candidati alle primarie e lei stessa riconosce di essere praticamente la sola a sostenere queste posizioni.

La maggiore critica che la Puppato fa al suo partito è di non riuscire a prendere delle decisioni per paura di deludere una parte degli elettori. Da oggi, però, se ne aggiunge un'altra: in un'intervista a Libero emerge l'ultima polemica riguardante i meccanismi poco chiari delle primarie
Già nei giorni scorsi, infatti, era stato chiesto ai candidati di raccogliere "95 firme tra i delegati all'Assemblea Nazionale o, in alternativa, le firme del 3% degli iscritti al Pd (18mila persone). Il tutto in una settimana", e ancora, "sabato è stato deciso che, oltre a quanto detto, i candidati debbano in soli 10 giorni (entro il 25 ottobre) raccogliere 20mila firme di elettori del centrosinistra, riconosciuti non si sa bene come, con il limite di non più di 2mila per Regione".
Insomma, una farsa per favorire la candidatura dei soliti noti, che spiegherebbe anche come mai sia stato concesso poco spazio alla Puppato su tv, giornali e radio.

Laura Puppato appare a molti elettori del centrosinistra come la persona più credibile e onesta che il partito possa offrire in questo momento: non ha pendenze con la giustizia, afferma con forza le sue posizioni in campo di diritti civili ed è un'icona di sobrietà. 
Lavora però all'interno di un partito che la critica aspramente o peggio la censura. Critica le lotte di potere e poi le alimenta candidandosi a sua volta. Critica atteggiamenti classisti di chi vuole rottamare il partito e poi cerca l'appoggio delle associazioni femministe per il solo fatto di essere una delle poche donne in politica, come se la lotta tra sessi non fosse controproducente esattamente come quella generazionale.
Inoltre, fermo restando che energie rinnovabili e sviluppo sostenibile possano e debbano essere una grande risorsa per il nostro Paese, c'è da chiedersi come mai una che parla di sviluppo appoggi in pieno un governo tecnico foriero di riforme suicide per la nostra economia. 
Europeista al punto di candidarsi alle elezioni europee del 2009, la Puppato ha affermato che l'Unione ha portato enormi benefici a Paesi come Spagna, Portogallo e Grecia, tralasciando di dire che proprio in questi mesi gli stessi Paesi sono strozzati dalla BCE e dal FMI con un Piano volto a soddisfare le esigenze dei più forti della zona euro.
Il governo tecnico che il Pd ha sempre appoggiato sta smantellando la scuola e tagliando migliaia di posti di lavoro. Come fa un politico che appoggia Monti a parlare di sviluppo, oltretutto diffondendo un programma che diventa misteriosamente fumoso proprio nei punti in cui i cittadini aspettano risposte concrete e in contrasto con l'austerity che ci è stata imposta?

Si ha l'impressione che i politici, per quanto in buona fede come sembra essere Laura Puppato, si accontentino di gridare al nuovo proponendo all'elettore la solita minestra riscaldata di sempre: si proclamano paladini dalle idee rivoluzionarie, ma non sono in grado di proporre programmi precisi, puntuali e credibili, limitandosi a ricalcare le politiche dannose e fallimentari di chi continua ad assicurare loro i privilegi di cui hanno goduto per anni. 
Ma soprattutto hanno perso il contatto con chi dovrebbe sostenerli.

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mercoledì 10 ottobre 2012

L'imprevedibile viaggio di Harold Fry

Il titolo, oltre a suscitare curiosità, risulta particolarmente azzeccato: di imprevedibile in questo viaggio c'è molto, inizio a parte.

Siamo nella tranquilla cittadina inglese di Kingsbridge, in casa di una inglesissima coppia di anziani. Entrando, ci colpisce l'immagine di un uomo rassegnato, Harold, che subisce l'acidità della moglie Maureen come se non avesse mai smesso di rimproverarlo. Un matrimonio normale, direbbero alcuni. Ma una lettera inattesa apre uno squarcio nel vissuto quotidiano: Queenie, amica di vecchia data di Harold, gli annuncia di avere il cancro e lo ringrazia della sua amicizia. Gli sta dicendo addio: è talmente evidente che lui scoppia a piangere, rivelandosi in tutta la sua debolezza e sensibilità. 
Tenta di risponderle con qualche frase di circostanza: l'amica lo ha fatto sentire in colpa perché non l'ha cercata in tanti anni di lontananza e lui è deluso, arrabbiato, addolorato. Maureen mormora che le dispiace, torna a sbrigare le sue faccende e lo accompagna borbottando alla porta quando lui va ad imbucare la lettera.
Harold ha fame e si ferma a mangiare un hamburger. Scambia due parole con la ragazza che lo serve, piuttosto insulsa e dall'aria stupida. Le parla di Queenie con ingenuità disarmante e lei gli parla di una sua zia, anche lei colpita dal cancro. Gli dice che l'unica possibilità è nella fede, ma non in senso religioso: bisogna credere di poter fare la differenza, perché sono tante le capacità che non sappiamo di avere. 
Uscendo dal fast food, Harold non riesce a smettere di pensare alla sua responsabilità nei confronti della malata e comincia pian piano a convincersi di poter fare qualcosa di concreto per lei. Evita di imbucare la lettera alla prima occasione, poi alla seconda, alla terza. Continua a camminare. Ad un tratto, fa una promessa: "finché camminerò, lei vivrà".
Non si può pensare che Harold creda davvero in un patto con Queenie, né che effettivamente una cameriera sia riuscita a trasmettergli una forza simile. Perché Harold è ancora l'uomo remissivo, debole e ingenuo che abbiamo conosciuto all'inizio. Eppure sostituisce il biglietto destinato all'amica con uno in cui le chiede di attenderlo finché non arriverà e dopo chiama la moglie per dirle che è partito. Maureen si infuria, protesta, ma non può impedirglielo.
Rimarrà a casa a fissare il telefono e ad aspettare le cartoline che la informano dei suoi progressi, ma soprattutto a riflettere.

Si, perché non bisogna farsi ingannare: la copertina è molto spiritosa, lo stile è scorrevole, la storia è piena di avventure, ma riuscire a star dietro ad Harold è molto difficile. 
Con un nome adatto più ad un cartone animato che ad un uomo della sua fragilità, Harold suscita tenerezza in chi lo incrocia e a volte viene deriso per il suo progetto, ma non è un semplice credulone. E' un uomo disperato in cui qualcosa è esploso vent'anni prima, distruggendo quel poco di serenità che era riuscito a conquistare dopo un'adolescenza difficile, terminata bruscamente quando il padre lo ha messo alla porta, all'età di 16 anni. 
La sua vita, più che affiancarlo nel cammino, lo insegue. La parte più facile è proprio camminare, mentre sono i ricordi a trafiggergli i piedi ed incurvargli le spalle. La sua onestà intellettuale e la sua nuova coscienza, costruita giorno dopo giorno e un piede avanti all'altro, sottolinea i suoi limiti e glieli agita sotto il naso, chiedendogli di superarli. 

Ogni tappa del suo viaggio lo porta ad una conquista. 
Innanzitutto riacquista il suo rapporto con la terra, che gli ha dato la vita e non ha mai smesso di mostrarsi in tutta la sua bellezza e la sua generosità. Da subito, infatti, Harold e la natura sembrano vivere in simbiosi: cieli infiammati dal sole dell'alba per la sua meraviglia, oceani di fiori per i pensieri che hanno bisogno di più spazio, nuvole di un grigio tagliente per i ricordi dolorosi, pioggia battente per un senso di abbandono e smarrimento che non lo lascia mai.
Il primo a dimostrargli di non essere all'altezza è il corpo: talloni induriti, dolori lancinanti ai polpacci e lividi accompagnano i bisogni più comuni, quelli che ci spingono a rifugiarci in casa, sotto un ombrello, fra i lembi di un cappotto. Harold rinuncia ad ogni protezione e accetta il dolore fisico, portandolo con sé come un compagno di viaggio, il più fedele. 
Il secondo grosso limite è la solitudine: la avverte come una colpa che gli altri gli hanno inflitto per la sua inadeguatezza e si rimprovera di continuo per la sua mancanza di carattere, con la quale giustifica la carenza di affetto nei suoi confronti da parte di persone importanti come sua madre. 
Ma continua a camminare, obbedendo ad un impulso fortissimo e scopre di avere una grande virtù: quella di saper ascoltare. Sono tante le storie che Harold ascolta durante il viaggio e le persone che riesce ad aiutare per il solo fatto di aver preso una decisione così grande, proprio lui che ha paura di disturbare con un rumore di troppo o una parola inopportuna, lui che ha passato la vita a tenere la testa bassa e ad evitare qualsiasi contatto fisico con gli altri. Anche la sua attitudine a passare inosservato si trasforma in un punto di forza: le persone vedono in lui la loro stessa fragilità e si abbandonano al dialogo.
Il contatto con gli altri, improvvisamente così intimo, diventa totale quando un gruppo di proseliti comincia a seguirlo e a trattarlo come fosse il loro guru. Sono persone altrettanto disperate che non hanno la forza di mettersi in cammino da sole e hanno bisogno di qualcuno che le guidi, ma senza condividerne completamente gli intenti; tra loro, alcuni manipoleranno Harold per i loro interessi, altri semplicemente lo abbandoneranno, facendogli rivivere i momenti più dolorosi della sua esistenza.
La semplicità di Harold impone un cambiamento anche in Maureen, che si era abituata ad addossargli le colpe di tutta una vita e ora, davanti alla sua presa di coscienza, deve rassegnarsi a deporre le armi e a mettersi in cammino pur rimanendo a casa. Guardarsi indietro significherà trovare la forza di andare avanti, soprattutto per il bene del marito, che la sta aspettando per l'ultima tappa, la più difficile.
Alla fine del suo viaggio, Harold deve affrontare il suo limite più grande: l'impotenza. Ha capito di essere mortale, fragile, limitato, inadeguato, ma non ha smesso di camminare perché pensava, in questo modo, di esercitare un potere sulla vita. Anche la sua ultima certezza, però, verrà messa in discussione per sempre.

Dunque, un bel libro. Non bellissimo: la parte centrale si concentra unicamente sulle emozioni dei personaggi e sulla loro evoluzione psicologica. Le loro vite si rivelano ai nostri occhi come carte da gioco: un ricordo dopo l'altro scivola lentamente nelle mani del giocatore di poker, lasciandoci in attesa della prossima carta, del prossimo pezzo del puzzle. Poi, improvvisamente, verso la fine la storia mette il turbo e siamo sopraffatti da una valanga di novità: neanche un americano avrebbe dato spazio a tanti colpi di scena. E pensare che la Joyce è inglese.
Di sicuro l'autrice o chi per lei ha fatto un lavoro di promozione molto valido: la copertina è vivace e giovanile, al punto da far pensare ad un libro per ragazzi, la storia è curiosa e avvincente, i personaggi sono credibili e le emozioni sono descritte con acume e sensibilità. 
La natura è forse un pò troppo presente: le descrizioni del panorama abbondano e verso la fine diventano un pò stancanti. 
Harold è su twitter, su facebook e in radio, ne hanno parlato persino alla BBC. Figuratevi che, quando ho acquistato il libro, mi è stata regalata una shopper di tela con la stampa del percorso di Harold!
Insomma, ha tutta l'aria di un best seller e noi glielo auguriamo.

Harold si è lasciato morire per vent'anni, stanco di soffrire. Ma quando un'amica sincera, forse l'unica che abbia mai avuto, gli scrive per dirgli addio, lui si ritrova a camminare da un capo all'altro dell'Inghilterra con un paio di scarpe da vela ai piedi. Insieme a lui comprendiamo il dovere di essere indifesi di fronte alla vita, di accettare il male che ci dà e di lasciarci amare da lei. Follemente.

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lunedì 8 ottobre 2012

Ridate a Cesare quel che è di Cesare


Notizia di ieri: la Chiesa non pagherà l'IMU sui suoi beni immobili. 
A deciderlo è stato il Consiglio di Stato, cioè il supremo organo che, tra le altre cose, tutela i diritti e gli interessi legittimi dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione. Dalla sua sede di Palazzo Spada, dunque, passano decisioni importanti, basti pensare alle gare d'appalto.

Occorre una piccola introduzione per capire di cosa stiamo parlando.
La nuova tassa sugli immobili introdotta dal governo Monti riguarda le abitazioni sia private che ad uso commerciale (tipo i negozi): prima avevamo una tassa simile, l'ICI, che il governo Berlusconi tolse di mezzo e che ora è risorta. Alleluia. Forse la principale differenza tra IMU e ICI è che la prima si impone anche agli immobili religiosi non usati propriamente per il culto, sorte che tocca anche alle associazioni no-profit.
Stiamo parlando del bar dell'oratorio o di sedi in cui, ad esempio, convivono un convento e un albergo.
Dopo lo scoppio di una polemica scatenata da qualche malpensante che non credeva ad una Chiesa obbligata a pagare una tassa, il Ministero del Tesoro ha diffuso un comunicato stampa in cui diceva che il ministro Vittorio Grilli aveva trasmesso "lo schema di regolamento di attuazione dell'articolo 91 bis, comma 3, del ddl numero 1 del 2012, convertito in legge numero 27 del 2012". Il comma in questione prevede appunto la tassazione delle "unità immobiliari con sedi miste", sul tipo di quelle illustrate poco più su.
Il Consiglio di Stato, però, non solo ha bocciato il regolamento, ma ha bacchettato il Ministero: non è affar suo stabilire se un'attività è commerciale o meno, dicono i giudici. O si rispetta il ruolo dell'Agenzia delle Entrate, o si fa una legge apposita.

Partono le prime due riflessioni. 
Tanto per cominciare: è opportuna una diatriba sulle imposte da far pagare o meno alla Chiesa nel momento in cui il peso delle tasse sui redditi degli italiani è salito al 44,7% e le imprese più piccole sono strozzate da IMU, IRAP e contributi? E ancora: è possibile che un ministro non sia riuscito a stilare un regolamento in modo corretto o non è più semplice pensare che ci stiano prendendo in giro per farci stare buoni?

Alla seconda domanda non posso rispondere con certezza. Alla prima invece si.
Ieri, cercando qualche notizia in più su questa faccenda, ho trovato parecchi post che definirei diversamente interessanti di liberi pensatori secondo i quali chiedere alla Santa Sede di pagare le tasse allo Stato italiano è come pretendere che la Francia o la Spagna paghino le nostre imposte, visto che lo Stato del Vaticano è indipendente e sovrano. Sempre secondo queste persone, la Chiesa Italiana (rappresentata dalla CEI, cioè la Conferenza Episcopale Italiana), gode delle stesse agevolazioni fiscali riferibili a qualsiasi cittadino, visto che non esiste alcuna norma nell'ordinamento italiano che esenti la Chiesa dal pagare i tributi in quanto Chiesa Cattolica.
A questo punto mi sembra evidente una certa confusione in materia, quindi no, parlare della questione non è opportuno, ma forse è utile.

Innanzitutto è vero che lo Stato del Vaticano è uno Stato indipendente esattamente come quello italiano: la sovranità territoriale è stata concordata con i Patti Lateranensi del 1929
Bisogna aggiungere, però, che le zone extraterritoriali della Santa Sede si estendono per una superficie complessiva di 700.000 m2 solo a Roma e provincia: un quarto del patrimonio immobiliare romano è nelle mani della Chiesa, che negli ultimi anni ha cominciato a fare trading immobiliare vendendo beni per oltre 50 milioni di euro. Il patrimonio gestito dallo IOR, la banca del Vaticano, e dall'APSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, sfiora i sei miliardi. Il giro d'affari del turismo religioso a Roma è stimato intorno ai 150 milioni di euro.

Vi starete chiedendo cosa c'entra tutto questo con la sovranità territoriale. Niente, sono solo le cifre di tutti i soldi che il Vaticano, Stato indipendente e sovrano, ricava da monumenti e immobili presenti sul suolo dell'Italia, altro Stato altrettanto indipendente e sovrano. 
Avete mai provato ad entrare nella Città del Vaticano? Se non avete visti particolari e non ci lavorate vi cacciano fuori a calci. Però loro da noi possono entrare quando vogliono. E non solo.
A chi pensate che vendano i loro immobili? Dovete sapere che da quindici anni a questa parte la Chiesa è protagonista di diversi sfratti a famiglie in difficoltà che risiedevano nelle case gestite dagli enti religiosi: nel momento in cui le abitazioni hanno riconquistato valore sul mercato è partita la caccia al miglior acquirente, che guarda caso è spesso e volentieri un politico al quale chiedere dei favori preziosi. 
Dunque non si limitano a possedere il 20% del patrimonio immobiliare italiano, ma lo usano per influenzare la politica a loro favore. 
Dicesi sovranità nazionale.

Direte voi: va bene, ma almeno gli immobili di importanza storica saranno ristrutturati a spese dello Stato del Vaticano, visto che è loro competenza.
Anche no e vi faccio un esempio.
L'organizzazione che gestisce i beni immobiliari della Santa Sede si chiama Propaganda Fide e ha sede a Piazza di Spagna, in un palazzo storico gigantesco che appartiene, appunto, allo Stato del Vaticano. L'ex ministro dei trasporti Pietro Lunardi ha finanziato la ristrutturazione del palazzo in cambio di appartamenti di proprietà dell'organizzazione concessi a prezzi stracciati. Per giustificare l'elargizione delle forti somme di denaro, si disse che in cambio i cittadini italiani avrebbero ottenuto l'opportunità di accedere ad una biblioteca situata all'interno del palazzo. 
Ovviamente non esiste nessuna biblioteca.

Si stima che se la Chiesa pagasse l'IMU nelle casse italiane entrerebbero circa 600 milioni di euro. A Bruxelles questi si chiamano aiuti di Stato ed è in corso un'indagine che potrebbe concludersi con delle sanzioni ai danni della Santa Sede.
Le precisazioni che seguono sono dedicate a chi non pensa che la Chiesa sia agevolata dal punto di vista fiscale. Ricordo a queste persone che anche se nell'ordinamento italiano non viene menzionata la Chiesa cattolica in riferimento ai tagli sulle imposte, i Patti Lateranensi sono ancora in vigore e anzi sono stati aggiunti ulteriori vantaggi per lo Stato del Vaticano dopo la revisione alla quale sono stati sottoposti nel 1984
Tralasciamo l'ICI, visto che ne abbiamo già parlato, e vediamo cosa rimane.


  1. La Chiesa paga solo il 50% dell'IRES, l'Imposta sul Reddito delle Società;
  2. La Chiesa è esentata dal pagamento dell'Imposta locale sui redditi dei fabbricati;
  3. La Chiesa è esentata dal pagamento dell'Imposta sull'incremento del valore degli immobili;
  4. I canoni, le spese per la manutenzione o il restauro dei beni e le spese per le attività commerciali svolte dall'ente sono deducibili dal reddito complessivo degli enti ecclesiastici;
  5. La Chiesa è esentata dal pagamento dell'IVA per le prestazioni rese da enti di beneficienza, ospedali, ricoveri e scuole;
  6. I sacerdoti non pagano l'IRAP sulle retribuzioni loro corrisposte;
  7. La Chiesa non paga i diritti doganali e daziari per merci estere dirette alla Città del Vaticano o agli Istituti della Santa Sede;
  8. I lavoratori assunti in società di proprietà del Vaticano sono esenti dal pagamento dell'IRPEF anche se la sede della società è in territorio italiano;
  9. Le scuole private confessionali godono di sovvenzioni statali;
  10. Gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole pubbliche godono di trattamenti contrattuali migliori rispetto ai colleghi;
  11. La Chiesa gode di fornitura idrica gratuita per la Città del Vaticano (art.6 del Trattato tra il Vaticano e il Regno d'Italia del 1929, non modificato dalla revisione del 1985), per un consumo annuo attestato sui 5 milioni di m3;
  12. Lo Stato Italiano prevede finanziamenti per "emittenti radiofoniche nazionali a carattere comunitario": le uniche che rispondono ai requisiti richiesti sono Radio Padania Libera (cioè la radio della Lega Nord) e Radio Maria;
  13. Lo Stato Italiano prevede finanziamenti per l'assistenza religiosa negli ospedali pubblici: in ogni struttura sanitaria pubblica o privata deve esserci almeno un "assistente religioso", uno per ogni 350 posti letto in strutture che ne hanno più di 700. Gli assistenti devono essere assunti dalla struttura ospedaliera ospitante, che deve mettere a disposizione spazi per le funzioni del culto, alloggi per gli assistenti, uffici e arredi e deve sostenere le spese necessarie al loro mantenimento, comprese quelle di illuminazione e riscaldamento.
Ho intenzionalmente lasciato per ultimo il famigerato 8xmille, cioè una somma raccolta tramite l'IRPEF che in base alla legge 222 del 1985 deve essere destinata "in parte a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e in parte a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa Cattolica". 
Oggi tutti i cittadini che presentano la dichiarazione dei redditi possono scegliere a chi destinare questa somma: solo il 40% degli aventi diritto opera una scelta e di questi, circa l'80% sceglie la Chiesa Cattolica. 
Il problema è che se uno non prende una decisione i soldi vanno automaticamente alla Chiesa, alla quale in questo modo arriva l'80% di tutto l'8xmille: parliamo di circa un miliardo di euro all'anno, di cui più di un terzo viene usato per gli stipendi dei sacerdoti e solo un quarto è dedicato agli interventi caritativi, senza contare i soldi utilizzati per la pubblicità della Santa Sede, che ne ha bisogno e la usa come qualsiasi azienda sulla faccia della Terra.
Ne ha talmente bisogno che ha appoggiato la decisione della Chiesa tedesca di poco tempo fa: chi non versa l'8xmille non può accedere ad alcuni sacramenti, non può proporsi come padrino/madrina di battesimo e non potrà godere di funerale celebrato in Chiesa.

Un'ultima considerazione, ma non in ordine di importanza, riguarda il legame tra lo Stato Vaticano e la nostra politica italiana.
Negli ultimi anni i finanziamenti statali all'edilizia popolare (cioè quella che si occupa di costruire abitazioni popolari) sono stati praticamente azzerati, mentre è stato stanziato più di un miliardo di euro per la costruzione di nuove chiese da parte del Vaticano. In Italia c'è la maggiore concentrazione di chiese al mondo e per me questo evidenzia il potere del Vaticano di controllare il territorio italiano in modo capillare.
Pensateci: la DC ha governato per trent'anni nel nostro Paese soprattutto grazie alla propaganda fatta dagli altari durante la messa. Inoltre c'è un politico cardine della nostra storia moderna, una persona che è stata dichiarata mafiosa e non è stata perseguita solo perché il suo reato era caduto in prescrizione. Ha fatto il bello e il cattivo tempo in Italia per parecchi anni, conquistando il potere e mantenendolo anche grazie all'appoggio incondizionato della Chiesa. 
Sto parlando di Giulio Andreotti, che oggi riveste il ruolo di Senatore a Vita.

La mia conclusione è che nessuno vuole negare che lo Stato del Vaticano sia indipendente e sovrano, ma ognuno deve essere indipendente e sovrano a casa sua. 
Se la Russia avesse la stessa quantità di sedi che il Vaticano ha sul suolo italiano, permettesse il riciclaggio di denaro attraverso una banca con sede a Roma e guadagnasse una grande quantità di denaro grazie alla compravendita di beni immobili nelle nostre città, influenzando i nostri politici, forse non sarebbe necessario scrivere certi post. Forse risulterebbe ovvio che qui se c'è qualcuno che usurpa la sovranità nazionale altrui, quella non è l'Italia. 

Agli amici di facebook, un suggerimento: vi passo il link di qualcuno che definisce chi condivide la mia conclusione come una pecora che non si informa prima di parlare. A mio avviso, urge un commento a tono.

http://www.facebook.com/notes/papa-benedetto-xvi/ma-quali-privilegi-e-ici-la-chiesa-le-tasse-le-paga-sei-non-sei-anche-tu-una-pec/247474578607943/

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domenica 7 ottobre 2012

Wall Street - Il denaro non dorme mai

Uscito nel 2010, è il sequel di Wall Street, film del 1987 dello stesso regista, il mitico Oliver Stone. Il soggetto è lo stesso: Gordon Gekko, l'anti-eroe interpretato da Michael Douglas venticinque anni fa, che ritroviamo un pò invecchiato ma ancora parecchio in forze.
Stone riprende il filo della storia per raccontare come è cambiata l'economia da quando Gekko è finito in galera: se prima ne aveva evidenziato la pericolosità, ora non può fare altro che confermare la sua idea alla luce degli avvenimenti del 2008.

Stessi protagonisti, stessi luoghi (anche comuni, con le ragazze bellissime sempre disponibili nei locali per ricconi e lo champagne che scorre a fiumi), ma se gli si parla di remake, Stone si arrabbia. La sua opera non va intesa come un semplice ve l'avevo detto, ma si propone come qualcosa di più: addirittura una saga familiare.

Calma, dall'inizio.

Gekko ha sfruttato i suoi otto anni di detenzione per riflettere sui suoi errori e si è reso conto che l'avidità sta portando i suoi colleghi manager di Wall Street a giocare col futuro dei cittadini ignari, spendendo i loro risparmi per titoli spazzatura e scommettendo su una crisi che loro stessi stanno causando. Ne avrete sentito parlare: dopo la bolla finanziaria del 2008 non ci siamo ripresi più, visto che le misure prese per evitare la chiusura delle principali banche hanno determinato la crisi economica che oggi stiamo cercando di affrontare senza particolare successo.
Ebbene, Gekko ha capito che l'unica cosa importante per lui, che ormai è solo un vecchio, è riconquistare la fiducia della figlia Winnie, la quale non gli rivolge più la parola e lo incolpa della morte del fratello, avvenuta per droga.
Mentre il padre era al fresco, Winnie ha aperto un blog di successo che punta a svelare i segreti del potere. Nome: La dura verità
Quando si dice originalità. 
Si è anche fidanzata col giovane broker Jake Moore, il quale vive la crisi da un altro punto di vista, più intimo: la banca per la quale lavora, la Keller Zabel, fallisce a causa delle speculazioni di altri manager e Louis Zabel, anziano fondatore della banca e mentore di Jake, si suicida buttandosi sotto un treno. Distrutto dal dolore, il ragazzo decide di vendicare Louis.
A questo scopo, avvicina Gordon dopo un incontro all'univesità dove Gekko ha tenuto una conferenza, presentandosi come il fidanzato di sua figlia e riuscendo così ad attirare la sua attenzione. Appena Gekko capisce che il broker ha bisogno di informazioni su chi ha tradito Zabel, gli propone uno scambio: un incontro con sua figlia per cercare la riconciliazione in cambio di tutte le notizie che sarà in grado di fornirgli sfruttando i suoi vecchi contatti.
Da quel momento, Jake mente a Winnie evitando di confessarle il suo incontro col padre, il quale riesce ad ottenere con fatica una seconda possibilità.

Ora avete capito perché Stone non vuole parlare di sequel? 
Il film non parla dei meccanismi che hanno portato al crollo delle borse del 2008, della cartolarizzazione o dei credit default swap, ma li pone come base per un dramma familiare, meglio ancora per una riflessione su ciò che ci porta a tradire chi ci è più vicino se c'è l'occasione di trarne un profitto.
Nel film la scintilla è Winnie: la ragazza non è particolarmente intelligente (come si fa ad imputare alla mancanza di un padre rinchiuso in carcere la tossicodipendenza del proprio fratello?), piagnucola per tutto il film e non è nemmeno coerente, dal momento che a Gekko bastano un paio di frasi per farla tornare a sorridere, ma è la chiave di tutto. Per un piccolo dettaglio: a suo tempo il paparino le aveva messo da parte dei soldi su un conto svizzero. E ora quella somma serve sia al futuro marito, nei guai per un investimento che non può più sostenere e senza più un lavoro, sia allo stesso papà, che anche se ripete all'infinito di essere ormai fuori dai giochi, in realtà non vede l'ora di tornare ai bei vecchi tempi e avrebbe proprio bisogno di un prestito.

Dunque, il velo cade e quello che resta non dipende né dal sistema bancario, né dall'avidità: abbiamo un uomo che tradisce la fiducia della propria compagna con l'alibi di una vendetta poco pulita e che in realtà vuole solo fare tanti soldi e un padre che sparge qualche lacrima sulla figlia che aveva abbandonato per ottenere altri soldi. Ecce homo.
Come cornice per questi lieti eventi, personaggi meno rilevanti come quello della madre di Jake (Susan Sarandon), una ex infermiera che si è buttata nel mercato immobiliare e non riesce a vendere nemmeno uno stanzino, per cui chiede continui prestiti al figlio.

La regia è come sempre limpida, geniale e priva di fronzoli, ma chi si ricorda il film del 1987 non può che rimanere deluso: niente descrizioni semplici di meccanismi complessi, solo un accenno agli eventi salienti della nostra storia economica moderna. In compenso sentimentalismi e americanate non mancano. 
Tanto per cominciare, la scelta dell'attrice per il ruolo di Winnie: Carey Mulligan ha un bel visino, ma per il resto è davvero insignificante. Attori veri come Frank Langella, Charlie Sheen e Eli Wallach lasciati in secondo piano, un cattivo dell'importanza di Josh Brolin ridicolizzato nella sua sete di potere e un giovane e bravino attore come Shia LaBeouf nei panni difficili di Jake Moore non possono reggere accanto ad una presenza come quella di Michael Douglas, che per l'interpretazione di Wall Street aveva conquistato nientemeno che l'oscar come migliore attore protagonista. 
Il film appare quindi sbilanciato: anche se Stone dice il contrario, è evidente il ricorso agli attori che avevano lavorato con lui più di vent'anni fa per tutte le scene chiave, mentre ha preferito un'attricetta mainstream e un attore più convincente per il ciuffo che non per le sue doti artistiche per i momenti più patetici (="che suscita commozione, compassione o tristezza"). 
La mia tesi è confermata dagli incassi, che in Italia hanno superato di poco i tre milioni di euro.

Oliver Stone ha ragione: non bisogna partire dal presupposto che questo film sia un remake, altrimenti non si riesce a coglierne il messaggio profondo
Il regista ci offre uno spunto di riflessione a mio avviso molto più importante di qualsiasi nozione potesse trasmetterci sugli avvenimenti economici che gli fanno da sfondo: le crisi e la corruzione non sono evitabili semplicemente modificando un sistema finanziario o criticando le gerarchie del potere. Non è demonizzando i banchieri o i "ricchi" del mondo che lo cambieremo e ci costruiremo un futuro migliore. Ci dobbiamo guardare allo specchio per vedere le stesse persone che ci hanno portato alla disoccupazione galoppante e alla perdita di diritti fondamentali, per vedere quelli che ci prendono in giro ogni giorno
Siamo noi che permettiamo a queste persone di manipolarci, tutte le volte che ci rifiutiamo di informarci sul loro conto o che accettiamo di votarli perché sono amici di amici, perché dicono cose di cui ci vogliamo fidare e sulle quali non vogliamo riflettere.
Nel film la gente e la stampa sono praticamente invisibili: si scatenano solo quando si dà loro in pasto il caprio espiatorio di turno, ma non hanno un potere reale. Forse è ora di cambiare canale.

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mercoledì 3 ottobre 2012

Musica per vecchi animali

Musica per vecchi animali è un film del 1989 scritto e diretto da Stefano Benni e Umberto Angelucci.

Non credo siano in molti a conoscerlo: fu ritirato dalle sale dopo soli tre giorni e per quanto mi sia informata a quanto pare non è mai venuto fuori il perché. Non era di certo un problema di gradimento: aveva ottenuto ottimi incassi, anche se solo per qualche giorno. Ad attirare il pubblico non erano stati solo i nomi dei registi, ma anche i due mostri sacri presenti nel cast: Paolo Rossi e il mitico Dario Fo accompagnati da una giovanissima Viola Simoncioni

Il trio vive un'avventura surreale in una città in preda ad un'emergenza di cui le forze dell'ordine non vogliono rivelare l'origine: c'è il coprifuoco, le strade sono praticamente deserte e i palazzi distrutti come dopo un bombardamento, ma i messaggi diffusi dalla radio parlano continuamente di semplici esercitazioni militari e di misure di protezione dei civili. In questo quadro bellico, vediamo Dario Fo nei panni del sessantenne professore Lucio Lucertola, Paolo Rossi nel ruolo del giovane (e incredibilmente smilzo) meccanico Lee e Viola in versione Lupetta, una ragazzina un pò sboccata e molto sveglia. 
Fra i tre nasce un'amicizia che li porterà a proteggersi ed aiutarsi reciprocamente per raggiungere i propri obiettivi di fuga: Lupetta scappa da casa, dove i suoi non smettono di litigare e di desiderarla più normale (leggi: gestibile), Lee deve attraversare tutta la città per consegnare un regalo misterioso alla sua fidanzata, bloccata in un letto d'ospedale e il professore vuole rivedere il vecchio quartiere dove ha vissuto e insegnato, ora in macerie e nel bel mezzo  di una zona inaccessibile.

Se trovate qualcosa di familiare in questi personaggi è perché sono stati ispirati da quelli di Comici spaventati guerrieri, sempre di Benni, così come le altre figure che costellano il film: Sergio, alla ricerca di un quisipuò, cioè un posto dove si possa giocare a calcio senza le proteste di passanti e inquilini imbufaliti, o Astice, che tutte le mattine va a chiamare il professore per andare a pescare col suo sidecar e il suo salsicciometiccio (nel linguaggio benniano, un cane non di razza e piuttosto in carne) con l'otite.
Ovviamente ci sono anche i cattivi, ma non fanno paura. Uno è il fascista Rambo, che ce l'ha con tutti i giovani fannulloni perché non contribuiscono alla Produttività Mondiale: insegue Lee per un motivo ben più prosaico, e cioè che gli ha fregato la macchina. L'altro ostacolo sono i poliziotti e i militari che impongono posti di blocco assurdi in giro per la città, costringendo i nostri ad inventarsi una serie di stratagemmi per aggirarli.

Come avrete intuito, il film è delirante
Ci sono delle scene che sfiorano il ridicolo, come quando i tre si conoscono: Lee è fermo ad una pompa di benzina deserta perché l'auto è a secco, Lupetta si avvicina e salta su senza smettere di prenderlo in giro e il professore di introduce nella conversazione sbucando da dietro i cespugli. Poi appare il benzinaio fantasma che gli fa il pieno a modo suo, cioè dicendo: "La benzina non esiste, la benzina siamo noi!". E la macchina riparte a tutta birra dando il via all'avventura.
Cioè, non so.
Altro momento topico è quando, per sfuggire ai controlli, il trio si inoltra nella metropolitana, scoprendo un vero e proprio mondo sotterraneo: vucumprà, donne gatto, un uomo travestito da Elvis che prima cerca di ammazzare Lucio Lucertola e poi scatena una rissa per salvarlo, santoni, commercianti di quadri che non compra nessuno convertiti al narcotraffico ("Cosa vuoi? Eroina? Cocaina? Caterina? ...è mia sorella!"). Ma soprattutto Luna, la Regina che emula una farfalla nel balletto più brutto che io abbia mai visto, programmi della De Filippi esclusi.

Nonostante questo, anzi proprio per questo, il film è da vedere: si ride tanto e si riflette ancora di più. 
Particolarmente interessante è l'edificio delle banche, fornito di un allarme che suona quando un civile alza la voce. O il museo, con un guardiano d'eccezione: Francesco Guccini che, con un cappotto consunto, un cappellaccio da spaventapasseri e barbone d'ordinanza, ha raccolto tutti gli utensili della civiltà estinta e li mostra ai nostri eroi. 
Già dall'inizio, infatti, il mondo sembra reduce da un attacco atomico e una voce fuori campo, con piglio da archeologo, parla della società moderna come della civiltà della caffettiera, che in effetti è l'unica cosa per la quale forse dovremmo essere ricordati 
Pare fossero arrivati addirittura sulla luna, anche se poi non ne fecero niente...

Eppure la terra brulica di vita, anche se la gente si va a divertire in un mondo dove polizia e istituzioni non entrano e lavora in luoghi fatiscenti. 
Ci sono i ribelli come in tutte le dittature che si rispettino: uomini che scappano e corpi coperti da teli sull'asfalto. E Lupetta che urla al poliziotto che la riporta a casa: "Non mi dire che non è successo niente! Basta un solo posto, un solo giorno e io non ti credo più!".

Poiché il film è diventato più unico che raro, la cosa più semplice è andarlo a vedere sul sito di Benni, che lo ha gentilmente messo a disposizione degli internauti. Vi passo il link: http://www.stefanobenni.it/

Per quanto riguarda gli attori, l'unica interpretazione adatta al grande schermo è quella di Paolo Rossi. 
Dario Fo, nella sua indiscutibile bravura, è lo stesso che vediamo a teatro: stessi gesti, stesse pause, stesso ritmo di declamazione. In una scena, guardandolo ballare, sembra di rivedere Ruzzante. Anche due ragazzini come Sergio e Lupetta adottano un tipo di recitazione più indicata al teatro: i loro personaggi ricalcano quelli tipici di Benni, che è un autore decisamente teatrale
La predilezione per il monologo e il modo quasi fumettistico di costruire i dialoghi (frasi ad effetto, tono di voce quasi sempre alto, ritmi serrati) fanno di lui uno dei migliori scrittori in circolazione, ma sul grande schermo trasmettono un senso di artefazione e di dispersione che non funziona.
Il film somiglia più ad un racconto aiutato dalle immagini e interpretato da attori eccellenti che parlano e si muovono come a teatro e ne sembrano consapevoli.

Forse la razionalità esce sconfitta da certe scene e la realtà, pur essendo vicinissima alla nostra, è talmente estremizzata da richiedere uno sforzo di fantasia perché l'opera risulti gradevole.
Ma anche se il film non parla direttamente al cervello, vi posso assicurare che arriva dritto al cuore.
Buona visione!

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