Questo è un libro cattivo.
Non un cattivo libro,
attenzione: mi riferisco a quanto la negatività che naviga tra una pagina e l’altra si
appiccichi alle dita, salga su per le braccia e arrivi inesorabilmente al
cervello, innescando una serie di pensieri al vetriolo non proprio indicati per
uno che c’ha già i problemi suoi. E ci si ritrova a chiuderlo ogni tanto
tenendo un dito a fare il palo tra il già letto e l’ignoto per fissare la
copertina in una muta protesta: ma io che ti ho fatto? Ma soprattutto: che si è
fatta l’autrice di Harry Potter per arrivare a tali vette di disprezzo per
l’umanità?
Si, perché la bionda che
vi guarda da uno dei risvolti della nuova, luccicante edizione che avete
acquistato con le migliori intenzioni è proprio lei, l’ideatrice del mago più
famoso dopo Merlino, quella che si è inventata la figata delle scale vagabonde
nella scuola per maghi e streghe: J.K. Rowling. Evidentemente la signora sta
cercando di togliersi di dosso l’etichetta di scrittrice per ragazzi: niente
magia né voli di fantasia, nemmeno un po’ di atmosfera; come se invece di farsi
una lavata di faccia per cancellarsi la scritta Harry Potter dalla
fronte abbia immerso il viso nell’acido citrico lasciando la carne viva a
reclamare attenzione.
Abbiamo una cittadina
piccola e provinciale, Pagford, in cui tutto sembra essere deciso da un
onnipotente e onnipresente Consiglio.
Tanto per cominciare, i
fiori nella piazza principale della città, sulla quale affaccia la salumeria di
Howard, uno degli uomini più influenti del posto, e di Maureen, tanto magra e
raggrinzita quanto lui è grasso e presuntuoso, con una uguale e più che
condivisa passione per il pettegolezzo. Shirley, fedele consorte di Howard,
coltiva la convinzione che gestire il ridicolo sito della città e soprassedere
alle riunioni del Consiglio faccia di lei una sorta di vate universale, sacro e
giusto per definizione.
Parminder, medico generico e acerrima avversaria di
Howard, sembra vivere al solo scopo di ostacolarlo. Sempre all’interno del
Consiglio, si capisce. L’irascibile e disonesto Simon si convince che entrare a
far parte della giunta equivalga a guadagnare una barca di soldi in mazzette,
manco si parlasse della presidenza degli Stati Uniti. O dell’Italia. No, per
dire.
Persino i personaggi che
col Consiglio non vogliono avere a che fare perché hanno già i guai loro
finiscono per subirne il cosiddetto fascino.
Tessa, psicologa della
scuola e moglie del preside Colin, fa fatica a fronteggiare gli attacchi di
ansia del marito, che peggiorano quando lui decide di candidarsi come nuovo
consigliere. Ruth, terrorizzata dalle esplosioni di ira del marito Simon, non
riesce a fare a meno di appoggiarlo nella sua campagna elettorale e cerca di
convincersi che l’uomo che picchia i suoi figli sia meno disgustoso di quanto
non risulti.
Infine Terri, eroinomane che a Pagford non vuole tornare per non
doversi ricordare un’infanzia costellata di abusi e violenze, sarà costretta a
farlo per continuare a ricevere il metadone della sua terapia: la chiusura del
centro per tossicodipendenti di Bellchapel aleggia per tutta la lunghezza del
libro sugli abitanti dei Fields, il quartiere malfamato a metà tra Pagford e
Yarvil, la città vicina. La giunta vorrebbe scaricare su quest’ultima la
responsabilità del risanamento come compensazione di una espansione sociale e
commerciale che evidentemente a Pagford non ci sarà mai.
Tra le vittime del Consiglio
troviamo anche gli adolescenti, che cercano vendetta per una situazione
insostenibile e si limitano a tappezzare il sito della città con messaggi
carichi di scomode verità, con conseguenze disastrose e a catena.
C’è anche chi prova a fare
a botte per marcare il territorio, come Kristal, la figlia di Terri, che mentre
si affanna a fare da madre al fratellino Robbie e a nascondere le siringhe agli occhi
degli assistenti sociali trova anche il tempo di minacciare la fragilissima
Sukhvinder, la figlia che Parminder preferirebbe non avere.
Tra i ragazzi spicca
sicuramente Stuart detto Ciccio, sempre teso nel tentativo di dimostrare la sua
superiorità, alla ricerca nei suoi atteggiamenti di tracce di inautenticità,
come lui stesso la chiama.
Dopo un po’ si capisce che per Stuart l’autenticità
risiede negli istinti primordiali dell’uomo, principalmente nella violenza e
nella capacità di prevaricazione, che hanno effetti distruttivi e in qualche
modo purificanti. Ciccio non è un cattivo ragazzo e soffre nell’infierire sulle
persone, ma cerca in questo modo di esorcizzare la stessa debolezza che vede
nei suoi genitori Tessa e Colin, debolezza che lo terrorizza e dalla quale
tenta di prendere le distanze. Non a caso una delle sue vittime preferite è
ancora una volta Sukhvinder, che similmente cerca nel dolore fisico una
purificazione dal senso di inadeguatezza che si porta addosso e che le viene
trasmesso, anche nel suo caso, dai suoi genitori.
Per contrasto, la
personalità più timida ma più responsabile di Andrew deve fronteggiare la
violenza fisica del padre Simon, cosa che lo costringe a crescere molto più
velocemente rispetto agli altri e non gli permette di perdersi in dissertazioni
filosofiche sul senso dell’autenticità: la cosa importante per lui è
sopravvivere in casa sua. La sua amicizia con Stuart, benché forte e datata,
finirà proprio a causa di questa differenza essenziale.
Ci sono poi dei personaggi
che sembrano non avere altra funzione se non quella di essere manipolati da
quelli più forti e decisivi a causa della debolezza, della stupidità e
dell’egoismo che li contraddistingue.
Miles pende dalle labbra
del padre Howard e si bea dell’incondizionata ammirazione di Shirley. Samantha
assiste alle idiozie di Miles chiudendosi nel suo mondo sdegnoso e fingendo di
innamorarsi di un cantante pop per bimbe minchia.
Gavin, un omuncolo con la forza
di volontà di un lombrico, fugge da Kay per non doverle dire di non averla mai
amata. Kay cambia lavoro sradicando una figlia adolescente da Londra per
seguire un uomo, Gavin appunto, per il quale il suo sacrificio significa solo un passo verso la perdita della sua autonomia, della quale peraltro non sa che farsi.
Mary passa il libro a fare la vedova
inconsolabile quando l’unica cosa che sa ricordare del marito è il tempo che ha
sottratto alla sua famiglia per dare una vita migliore agli abitanti dei
Fields, provocandosi così (sempre secondo lei) un aneurisma.
Catalizzatore di qualsiasi
situazione, miccia incendiaria di tutte le guerre, tragedia madre di tutte le
tragedie e pettegolezzo padre dei pettegolezzi, insomma, centro di gravità
dell’intero libro è Barry Fairbrother.
Il rispetto o l’avversione
nei confronti suoi e delle sue idee diventano il pretesto per questioni di
principio, beghe familiari, bugie e tradimenti. E’ col suo nome che i ragazzi
firmano gli appelli lasciati sul sito ed è la sua memoria ad essere totalmente
strumentalizzata: come un Gesù Cristo de’ noantri, Fairbrother viene crocifisso
e portato in trionfo da chiunque abbia qualcosa da recriminare al prossimo,
cioè tutti, lasciandosi dietro una scia di morti e feriti.
Mamme addolorate per i
figli diventati degli estranei, figli delusi dal comportamento vigliacco e
insensato dei genitori, padri troppo infantili per non prendere il
comportamento dei figli come un affronto personale da far pagare caro: perdite
e allontanamenti segnano le tappe di questo percorso e i funerali marcano sia
l’inizio, sia la fine della storia.
Ciò che avviene nel mezzo
è un caos di uomini e donne senza scopo né direzione, che hanno bisogno di
dichiararsi incompresi e soli davanti al mondo per riconquistare un po’ di
dignità. Una umanità incapace composta da gente che non ama
il proprio lavoro e lo fa nel modo peggiore possibile: psicologi e assistenti
sociali troppo impegnati e distratti per risultare utili a qualcuno,
amministratori del bene pubblico dalla mente ottusa e dall’ego smisurato, mezze
seghe che per procurarsi un’identità hanno bisogno di picchiare un bambino,
violentare una ragazza, farsi di eroina e costruirsi una maschera sprezzante
sotto la quale nascondersi, come un tappeto coi cocci dei sentimenti propri e
altrui, inutili in questa giostra di continue prevaricazioni.
Era meglio morire da
piccoli.
A confermarlo, lo stile
della Rowling non fa che appesantire ulteriormente i toni con parentesi lunghe
chilometri e una certa ossessione per i particolari: sarà poi tanto utile sapere
com’è vestito il rappresentante di reggiseni che non riesce a venderne nemmeno
uno a Samantha, il cui negozio viene nominato si e no due volte in tutto il
libro e alla quale il tipo non piace nemmeno?
I personaggi, inoltre,
sono tratteggiati in maniera ridicola: i cattivi lo sono senza sfumature, come
i cartoni animati, mentre quelli che potrebbero essere dei surrogati di brave
persone sono sopraffatti dal dolore e non riescono a reagirvi se non con nuovi
atti di violenza e aggressione. Così il buono, quello che ci stava un po’
simpatico, già è passato dall’altra parte e bisogna ricominciare a farsi
piacere qualcuno.
Quando poi quelli decenti
vengono meno definitivamente, sorge spontanea una domanda: ma perché uno
dovrebbe rassegnarsi a vivere in questo modo? Stanno tutti male, non se ne
salva nemmeno uno, sono tutti bastardi e corrotti, neanche tutte le tragedie e
gli scandali che hanno subito sono serviti a qualcosa. Ebbene perché il famoso,
preziosissimo Consiglio non approva un bel Decreto per il suicidio di massa?
Scrivo alla Rowling e vi
faccio sapere che mi dice. Così le chiedo pure se è già in analisi o ha bisogno
di un invito scritto.
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